Romano Bonadei è stato un imprenditore tessile ed è presidente della Fondazione delle Industrie del Cotone e del Lino. La Fondazione dal 1988 diffonde la conoscenza delle fibre naturali e sostiene le aziende che in Italia le lavorano. È una associazione di imprese che ha a cuore la sostenibilità sociale e ambientale e crede che il valore del Made in Italy si affermi nella produzione di manufatti di qualità , nella ricerca e nell’innovazione continua.
Parliamo dell’Industria del Cotone. Così si chiama la produzione del cotone, che include un mondo immenso, dal piccolo contadino con in mano la zappa di legno in Cina e in Africa al grande farmer americano o australiano, che su un trattore con aria condizionata comanda per esempio dal suo iPhone l’erogazione dell’acqua segnalata dal sistema satellitare.
Ma è necessario darvi qualche numero per inquadrare l’industria del cotone. Incominciamo da ieri e prendiamo come riferimento gli anni ‘80-‘90, prima che la globalizzazione cambiasse lo scenario mondiale del nostro settore tessile, e prima che alcuni miliardi di persone dei paesi Asiatici migliorassero il loro reddito.
In quegli anni si producevano e si consumavano 10- 12 milioni di tonnellate di cotone su un totale 50 milioni di tonnellate di fibre.
In quegli anni il mondo occidentale, Stati Uniti ed Europa, producevano la maggior quantità di tessile e abbigliamento; solo Hong Kong era un forte concorrente.
Non si sentiva ancora la presenza delle altre produzione del FarEst e in particolare della Cina, dell’India e del Pakistan.
I più importanti produttori di fibra di cotone erano gli Stati Uniti, i paesi dell’Oriente Russo (Uzbekistan – Tagikistan – Turkmenistan), India, Pakistan, Turchia, America Latina e i paesi Africani. La Cina produceva solo per il suo consumo interno e solo dopo la rivoluzione di Den Xiaoping ha drasticamente aumentato le proprie produzioni.
Tutte queste statistiche le abbiamo tramite l’ICAC, una associazione a livello governativo dei paesi che producono e consumano cotone.
Ha sede a Washington e ogni mese rappresentanti delle ambasciate di questi paesi si riuniscono in uno Standing Committee.
Ci sono inoltre una decina di altri comitati ai quali partecipano mediamente una decina di rappresentanti scelti a secondo dei diversi compiti e esperienze tecniche e sociali.
Io partecipo a due di questi comitati, il PSAP e il CSICT.
Nel PSAP sono presenti esperti delle Associazioni Private dei produttori di cotone, del commercio e dei produttori tessili e segnalano allo Standing Committee gli argomenti di interesse del modo tessile.
Nel CSICT si studia la Standardizzazione della Classificazione del cotone, delle strumentazioni e dei parametri di qualità per unificare le regole del suo commercio mondiale.
Un altro importante comitato è il SEEP, per lo studio di tutto quanto impatta sulla produzione del cotone: costi di produzione, consumi di insetticidi e di chemicals, lavoro minorile, consumo di acqua e la quantità di utilizzo dei terreni arabili, la sostenibilità e quanti sussidi in forme varie i governi assegnano alle produzioni del cotone. I sussidi sono uno dei problemi che più contribuiscono e creano distorsioni nei prezzi del cotone. In questo comitato siamo rappresentati da Francesca Mancini della FAO di Roma.
In una riunione annuale, che a rotazione si tiene in uno dei paesi partecipanti in ICAC, si presentano e si discutono tutti questi argomenti e si cercano soluzioni per tutte queste problematiche che interessano un mondo così ampio. Pensate che sono centinaia di milioni le persone che sono coinvolte nella produzione del cotone e altrettante nella trasformazione e nella distribuzione finale del tessile. È un mondo in continua evoluzione e venendo ad oggi le quantità sono totalmente cambiate. Oggi si producono nel mondo 25 milioni di tonnellate di cotone. Il doppio rispetto agli anni ‘90 e se nei paesi Occidentali il consumo pro capite è rimasto invariato, la differenza la hanno fatta alcuni miliardi di persone che grazie alla globalizzazione hanno finalmente aumentato, seppur di poco, il loro reddito.
Oggi sono più di 90 milioni di tonnellate le fibre consumate nel mondo e per la maggior parte sono fibre sintetiche e artificiali, principalmente il poliestere. Le fibre man-made, si chiamano così le fibre derivanti dal petrolio, sono cresciute del 7% all’anno e oggi sono 58 milioni di tonnellate e rappresentano il 65% del totale delle fibre consumate.
Non ho accennato alle quantità di produzione della lana che con circa 1,5 milioni di tonnellate rappresenta solo 1,3%; del cachemire, del lino, della seta e di altre fibre naturali che sono importanti nelle produzioni della moda ma che percentualmente sono inferiori al 1% del totale.
Le altre fibre vegetali, juta, sisal, ecc sono in declino e rappresentano il 5% del totale.
E non ho ancora accennato al cotone organico. Ad oggi è solo l’uno per cento della produzione totale del cotone.
È sottoposto a strette regole che non permettono l’uso di insetticidi, di prodotti chimici, ma solo l’uso di fertilizzanti naturali che devono essere usati anche per le altre produzioni che, a rotazione, è necessario produrre sugli stessi terreni.
È molto importante che non sia utilizzato alcun seme geneticamente modificato GMO. Tutto questo riduce enormemente le quantità e la qualità del cotone organico e solo in poche aree del mondo, che godono di particolari condizioni climatiche, sono possibili produzioni convenienti.
Come abbiamo detto, le quantità di cotone tradizionale prodotte oggi sono il doppio degli anni ‘90 e questo è stato possibile principalmente con l’utilizzo di semi geneticamente modificati, GMO, che hanno permesso di aumentare e a volte raddoppiare le produzioni, con una contemporanea riduzione di uso di insetticidi e di acqua e utilizzando la stessa superficie arabile.
Non sarebbe stato altrimenti possibile perché la competizione di altre commodity agricole non avrebbe permesso l’utilizzo di altre aree arabili.
Per ridurre l’impatto che la produzione del cotone tradizionale può avere sull’ambiente e sulla sostenibilità del pianeta, si stanno creando delle associazioni, come BCI, Far Trade, che accettano l’utilizzo dei semi geneticamente modificati, GMO, ma contemporaneamente istruiscono i contadini nelle migliori pratiche di cultura e contribuiscono a migliorare le condizioni di vita delle comunità che lavorano il cotone nelle aree povere del mondo.
Un’altra importante associazione è ITMF, la federazione mondiale di associazione tessili, che ha sede a Zurigo e che è l’unica fonte in grado di raccogliere importanti dati statistici sulle produzioni tessili e praticamente l’unica fonte in grado di monitorare gli investimenti tessili mondiali. Anche ITMF ha alcuni comitati e io partecipo allo Spinners Committee, dove con un una decina di colleghi delle aree tessili mondiali, organizziamo visite nelle aree di produzione del cotone per far conoscere alle associazioni dei contadini e ai Ginnatori le esigenze e le caratteristiche richieste dai filatori, che sono gli utilizzatori del cotone.
Putroppo, per quanto riguarda l’Italia, la filiera tessile ha subito un pesante tracollo soprattutto nelle prime fasi di lavorazione (filatura). Il consumo di fibra è passato dalle 300.000 ton negli anni ’90 a sole 40.000 ton nel 2012 e nel 2013.
La produzione totale di cotone in Europa è di 330.000 tonnellate e con un consumo stimato di 165.000 tonnellate.
Ma l’Europa resta comunque la seconda trading zona del mondo, anche se negli ultimi due decenni le produzioni tessili di filati, tessuti, finissaggi e confezioni sono in diminuzione, il valore dell’export è comunque di 150 miliardi di Euro.
Le importazioni di cotone, filati , tessuti di cotone in Europa sono di 1 milione di tonnellate.
Dobbiamo anche ricordare che l’Europa è la regione che ha la produzione più avanzata di meccanotessile del mondo.
Assistiamo a una continua evoluzione e delocalizzazione delle produzioni. Ora i cinesi, dove il costo del lavoro cresce del 10% all’anno, delocalizzano in Vietnam e Cambogia.
Ma contemporaneamente e inaspettatamente nuove filature sono state installate negli Stati Uniti e dove anche altri settori manifatturieri hanno rivisto nuovi investimenti grazie ai bassi costi dell’energia e di regolamentazioni chiare e semplici.
Non possiamo essere così ottimisti in Europa. Anche se una produzione di “pronto moda†richiede flessibilità e consegne just in time, non vedo come sarebbe possibile ottenere anche qui simili condizioni di costo. Le ultime previsioni di crescita della popolazione mondiale ci fanno ritenere che anche i consumi di cotone continueranno a crescere di almeno un 2% all’anno, anche se negli ultimi tempi la caduta del prezzo del poliestere rende meno competitivo l’uso del cotone. Già in alcune produzioni di massa, per ridurre il costo, il mercato richiede l’inserimento in mischia di percentuali di fibre artificiali e sintetiche.
Oggi il costo di produzione del cotone fatica a competere con altri prodotti agricoli, specialmente da quando scelte politiche hanno privilegiato e sovvenzionato i biofuel. Grandi aree arabili vengono dedicate a queste produzioni e hanno reso molto volatile il prezzo delle commodity agricole e del cotone.
Ne hanno risentito immediatamente anche le produzioni agricole alimentari e non a caso abbiamo assistito alle cosiddette rivoluzioni del pane che dalla Tunisia si sono estese a tutto il nord Africa.
Un chiarimento dovremmo averlo dalle semplificazioni delle procedure doganali introdotte quest’anno nell’ultima riunione del WTO a Bali, nuovi standard e nuove regole dovrebbero facilitare e promuovere nuovi scambi per 1000 miliardi di dollari.
Ma per quanto riguarda il cotone purtroppo non sono state rimosse le sovvenzioni e gli aiuti alle esportazioni che gli Stati Uniti, la Cina e l’Europa danno al cotone e questo penalizza gravemente i produttori di cotone nei Paesi poveri e in via di sviluppo, nonostante se ne discuta dal 2003 a Cancun.
Fare previsioni sul futuro del cotone, anche se sappiamo che i grandi numeri cambiano con piccole variazioni annuali, resta difficile.
Sicuramente sempre più influiranno le richieste dei consumatori che richiedono prodotti più eco-compatibili e sostenibili.
Questo dovrebbe favorire in futuro le produzioni Italiane ed Europee che sono necessariamente rispettose delle regole del REACH che come sapete limita e vieta l’utilizzo di ogni sostanza chimica dannosa per la salute dei consumatori.
Regole che sono disattese in gran parte del mondo e infatti recenti controlli effettuati da Greepeace Italia hanno certificato che una gran parte di prodotti tessili importati contengono percentuali di sostanze pericolose alla salute superiori ai valori tollerati. E molti di questi prodotti erano venduti da alcuni noti marchi italiani e internazionali.
Una ragione in più per ricercare nei nostri acquisti prodotti dalla manifatture italiane e europee.