In questi ultimi cinquant’anni il nylon per tessile – e parliamo di poliammidi 6 e poliammidi 66 – non ha sostanzialmente cambiato la formulazione di base. Solo negli ultimi due decenni ci sono stati cambiamenti di piccola portata in termine generale, ma di notevole efficacia in termini applicativi. Con questo articolo vorremmo porre l’accento su tali cambiamenti, cercando di spiegarli al meglio senza entrare nei dettagli chimici, anche se ci rendiamo conto che sarà un compito estremamente difficile coniugare leggi di equilibri chimici, formule, concetti tecnologici e scientifici con scorrevolezza di racconto e facilità di comprensione da parte dei molti fruitori di questa rivista che chimici non sono. Nel corso della nostra attività professionale abbiamo notato come la gente conosca i termini poliammide o nylon, ma che non ha la minima idea di che cosa si tratti. Abbiamo pertanto pensato di dividere questo articolo in due parti. La prima è un mini-corso, tipo Bigino, sulle poliammidi, sulla loro nomenclatura, sulle definizioni dei pesi molecolari, sui gruppi che compongono le loro molecole. Questa parte, oltre a fornire una base tecnico-culturale sull’argomento, consente al lettore di fruire meglio della seconda parte, quella che affronta l’argomento principe che vuole spiegare i cambiamenti avvenuti nelle tipologie delle poliammidi per tessili e negli impianti atti a produrle. Per completare il quadro abbiamo riportato lo schema di un impianto tessile caratteristico per produrre POY (preoriented yarn). Ci rendiamo conto di tutte le difficoltà che ci aspettano ma… lasciateci almeno provare! Verificheremo successivamente se saremo riusciti a soddisfare una buona parte dei fruitori.
Premessa – Il chimismo di base delle poliammidi
Vogliamo dare ai lettori la possibilità di intendere meglio quanto diremo nel proseguo e per far ciò cercheremo di fornir loro un minimo di concetti base sulla polimerizzazione in generale e in particolare sulle poliammidi 6 e 66. Coloro che non volessero usufruire di tali informazioni possono passare alla seconda parte più descrittiva e storica, ma li avvisiamo già sin d’ora che potrebbero avere qualche difficoltà di comprensione di alcune parti in cui è coinvolta la chimica che abbiamo cercato di illustrare nella prima parte.
Il significato del nome poliammidi, il peso molecolare e le diverse tipologie
Come abbiamo spiegato nell’articolo pubblicato su questa rivista lo scorso anno (pag. 21 – Dalla seta al nylon. Storia di una sfida vinta ma con finale tragico), il termine nylon è l’acronimo del marchio scelto, dopo una difficile cernita tra almeno 400 proposti, dalla DuPont per la poliammide 66, che fu la prima poliammide offerta sul mercato poco prima della Seconda Guerra Mondiale; ciò nonostante nel corso dei decenni tale termine divenne il nome comune per tutte le fibre poliammidiche di mercato, perdendo così la sua connotazione di marchio registrato e lo si utilizzò, sebbene impropriamente, per definire le poliammidi in generale. Il termine poliammidi deriva dal fatto che le catene di polimero che le costituiscono sono caratterizzate dalla presenza di una serie costante e intercalante di legami “ammidici†lungo le catene polimeriche (chiamate macromolecole proprio per le loro dimensioni assai maggiori rispetto alle più piccole molecole dei composti basilari della chimica organica).
Come si genera questo legame ammidico
Si genera dalla reazione tra un gruppo amminico (NH2) e un gruppo carbossilico (COOH), con formazione di acqua (H2O), come mostrato nella sottostante reazione che, è necessario ricordarlo, è una reazione di equilibrio e questo importante concetto verrà ripreso più oltre:
Le linee tracciate a mano libera simboleggiano la catena di polimero che sta crescendo. Questa reazione, in chimica organica, si chiama “condensazioneâ€, ossia reazione tra due gruppi chimici funzionali; nel caso di tutta una serie di reazioni per formare un polimero si parla di “policondensazioneâ€. Ogni evento reattivo fa crescere la lunghezza della catena macromolecolare in quanto si uniscono due macromolecole più piccole per formarne una che è la somma delle due precedenti. È proprio di questa reazione che parleremo nel proseguo per farvi capire quanto essa sia strettamente legata al peso molecolare della poliammide che si deve ottenere, ai processi per la sua regolazione e come sia determinante sia per la stabilità della poliammide durante i processi di rifusione (filatura a secco nel caso del tessile che stiamo trattando), come per la regolazione dei gruppi terminali amminici che sono quelli su cui ci si basa per tingere la fibra. Tecnicamente non si parla di peso molecolare ma ci si esprime in termini di viscosità del polimero sciolto in una soluzione diluita di un idoneo solvente (acido formico al 90% o acido solforico al 96% o 98%), una proprietà direttamente collegata al peso molecolare della poliammide e, conseguentemente, alle proprietà del materiale che da essa si ottiene. Dato che la gran parte dei lettori non conosce questa metodologia noi ci riferiremo spesso al grado di polimerizzazione medio numerale:
che è la media numerica del numero di unità che si ripetono in catena. Il termine abbreviativo DP deriva dall’inglese “Degree of Polymerization†che è il corrispondente dell’italiano “Grado di Polimerizzazioneâ€. Si tratta della media del numero di unità ripetenti che costituiscono le macromolecole del polimero. Se questa vale 200 significa che ci saranno mediamente 200 unità di polimero nel guazzabuglio di catene macromolecolari di tutte le lunghezze di cui esso è composto. Da questo grado di polimerizzazione medio si ricava il peso molecolare medio numerale moltiplicandolo per il peso molecolare di ogni singola unità ripetente:
Se consideriamo, ad esempio, una poliammide 6, la cui unità che si ripete ha un peso molecolare di 113, e se diciamo che la media del numero di unità che si ripetono nella catena di poliammide è di 200 unità avremo:
Il dalton è un’unità di misura semisconosciuta ai più, ma per farla semplice diciamo che se l’atomo più piccolo che è l’idrogeno valesse 1 un polimero con peso molecolare 20000 pesa mediamente 20000 volte di più dell’atono di H. In effetti l’idrogeno pesa 1,008 e l’unità dei pesi atomici si definisce come un dodicesimo del nucleo del carbonio 12, che alla fine è 1. Ma non stiamo a sottilizzare!
Secondo le nomenclature ufficiali, correttamente dovremmo usare il termine “massa molecolare†invece che “peso molecolare†ma noi, vecchi polimeristi, abbiamo cominciato ad usare il termine “peso molecolareâ€, prima che la IUPAC decidesse diversamente e continuiamo, per abitudine a chiamarlo così. Sono cose che succedono, come è accaduto per l’unità di misura della Pressione che alcuni anni fa passò dai vecchi termini (Bar, Atmosfere o kg/cm2) a Pascal, un’unità talmente piccola da doversi sempre utilizzare i kilopascal o i megapascal: provate ad andare dal gommista e chiedergli di pomparvi gli pneumatici a 0.13 megapascal invece di 1.3 atmosfere: come minimo vi guarda attonito o al peggio vi ride in faccia. Così è per noi con il peso molecolare dei polimeri.
Nei polimeri, purtroppo, coesistono differenti pesi molecolari medi a seconda del metodo utilizzato per determinarli (media numerale, media ponderale, media viscosimetrica e infine media z, quest’ultima ottenuta in caso di determinazione del peso molecolare via “light scatteringâ€; vi risparmiamo le formule matematiche per determinarle):
Quelli riportati qui sopra sono quelli generalmente considerati e ognuno è determinato utilizzando differenti tipi di calcolo della media che dipendono dal metodo sperimentale utilizzato per determinare tale media. Non vogliamo addentrarci in un argomento difficile come quello della dispersione dei pesi molecolare dei polimeri. Vi basti sapere che in un polimero esistono macromolecole di lunghezze diverse e tali lunghezze partono da molecole di una unità fino a quelle di migliaia di unità , distribuite seguendo una curva di tipo simil-gaussiana, come quella rappresentata in Fig.1, dove in ascissa ci sono i logaritmi dei pesi molecolari e in ordinata le concentrazioni molecolari; sulla curva sono riportate tre delle cinque medie citate precedentemente. Nel polimero coesisteranno pertanto tutte le lunghezze possibili delle macromolecole costituenti il polimero, cominciando da quelle con una sola unità ripetente (DP=1), sino a quella di lunghezza massima (DP=max).
La larghezza di tale curva viene valutata con un indice che si chiama indice di dispersione dei pesi molecolari e che è il rapporto tra due delle succitate medie, la ponderale e la numerale:
Più alto è D e più la curva è larga. Per i polimeri ottenuti per policondensazione, come è il caso delle poliammidi 6 e 66, il valore di questo indice D si situa vicino a 2, almeno per le poliammidi 6 e 66 di uso tessile.
Fig. 1 – Esempio di curva di distribuzione dei pesi molecolari. Sulla curva sono situate tre delle medie più
utilizzate:
Ci sono molti tipi di nylon sul mercato dei tecnopolimeri e i più comuni sono quelli cosiddetti alifatici lineari. Negli anni ’30 chi li aveva scoperti (Carothers) aveva fatto uno spaventoso screening utilizzando tutti i monomeri facilmente disponibili a quel tempo, normalmente molecole alifatiche lineari (diammine, biacidi carbossilici, amminoacidi e/o lattami). Per dare un nome alle poliammidi di volta in volta ottenute si scelse una nomenclatura numerica basata sul numero di atomi di carbonio presenti nei monomeri costituenti.
Le poliammidi AABB
Detto ciò, per noi che scriviamo, per anni a stretto contatto del nylon, il termine poliammide 66 (PA66 o Nylon 66) è estremamente chiaro, ma dobbiamo considerare che per i non chimici sia necessaria una spiegazione. È molto comune l’uso di altre diciture con i due numeri separati da un punto o da una virgola (Nylon 6.6 o 6,6), ma noi preferiamo quella senza interpunzione perché più “pulitaâ€, anche se nei casi di numeri superiori a 10 ci potrebbe essere qualche confusione: in realtà tale confusione, per i prodotti in mercato, non esiste.
Nel nylon 66 il primo 6 è relativo alla esametilendiammina [2HN-(CH2)6-NH2] che ha sei gruppi metilene (CH2) e quindi 6 atomi di carbonio; il secondo 6 è relativo all’acido adipico (HOOC- (CH2)4-COOH) che ha 4 gruppi metilene e due gruppi carbossilici (COOH) per un totale di 6 atomi di carbonio.
In questo modo la classificazione delle poliammidi di tipo AABB (AA= diammina – BB=diacido) ottenute da diammine e acidi bicarbossilici risulta facilissima:
- Nylon 69: ottenuto dalla esametilendiammina (6 atomi di carbonio) e dall’acido azelaico (9 atomi di carbonio) [HOOC-(CH2)7-COOH];
- Nylon 610: ottenuto dalla esametilendiammina (6 atomi di carbonio) e dall’acido sebacico (10 atomi di carbonio) [HOOC-(CH2)8-COOH];
- Nylon 612: ottenuto dalla esametilendiammina (6 atomi di carbonio) e dall’acido dodecandioico (12 atomi di carbonio) [HOOC-(CH2)10-COOH]
Esistono altri Nylon lineari alifatici di tipo AABB sul mercato (1212-126-1010- ecc.) ma sono prodotti di nicchia e utilizzati solo nel settore tecnopolimeri.
L’utilizzo di monomeri con due funzioni amminiche e due funzioni carbossiliche, risulta obbligatorio in quanto si deve estendere la catena macromolecolare al massimo possibile nel corso della polimerizzazione; se avessimo presenza di monomeri monofunzionali – monoammine (A) o monoacidi (B) – dopo che il gruppo monofunzionale terminale A della catena polimerica in accrescimento reagisce con il gruppo B del monoacido, la catena si blocca in quanto non esiste un altro gruppo reattivo che possa estenderla ancora: infatti la catena termina con un gruppo R o R’ che non sono funzionali e quindi incapaci di reagire per poter continuare l’accrescimento della catena; ovviamente il blocco avviene con un monoacido sul gruppo amminico oppure con una monoammina sul gruppo carbossilico:
Per capire meglio come funziona un terminatore monofunzionale proviamo a fare un esempio pratico.
In una palestra sono presenti 44 persone di cui 22 femmine (F) e 22 maschi (M). Si ordina loro di prendersi per mano alternando uomini e donne. Al termine avremo una sola catena costituita da 44 persone (escludiamo la possibilità che la catena si possa chiudere su se stessa) dove si situano alternativamente maschi e femmine, la catena si allunga sino ad esaurimento delle persone presenti. Se ripetiamo l’esercizio aggiungendo due individui maschi monchi (M*) (non si offendano le donne poiché la scelta di due maschi è purante casuale e l’esempio risulta identico anche con due femmine monche… per lo meno siamo stati cavalieri ed abbiamo evitato lo strazio di mozzar loro un braccio), si formeranno due catene che ad una estremità avranno il maschio monco e all’altra estremità un maschio. Ovviamente le due catene non si possono congiungere in quanto ai quattro terminali delle due catene ci sono solo maschi che in genere non si accoppiano (l’esempio è puramente didattico perché la vita, come ben si sa, è differente viste le battaglie che si stanno facendo per riconoscere l’omosessualità ).
Come potete vedere dal disegno, inizialmente abbiamo maschi e femmine mescolati; con l’ingresso dei due maschi monchi le unità totali sono diventate 46. Nell’altro riquadro, a congiungimento già avvenuto (reazione di policondensazione), si sono formate due catene, una di 20+1 unità e l’altra di 24+1 unità . Facendo la media si avrà una lunghezza media delle catene di 21+25=46/2=23 unità .
Se introduciamo quattro maschi monchi, ragionando allo stesso modo, avremo 48 unità e si formeranno 4 catene che avranno ad una estremità il maschio monco e all’altra estremità un maschio per un totale di 44+4=48 unità . Facendo la media si otterrà una lunghezza di catene di 48/4=12 unità . Le singole catene possono avere distribuzione di lunghezze differenti e casuali sempreché il numero totale delle unità sia sempre 48 (Es.: 12+12+12+12 – 4+15+18+11 – 3+4+34+7 – ecc.).
In conclusione, più agenti monofunzionali introduco nel sistema e minore sarà la lunghezza media delle catene. Potete intuire come nel caso dei polimeri noi possiamo regolare il peso molecolare del polimero che vogliamo ottenere dosando opportunamente le percentuali di agente monofunzionale (monoammine o monoacidi). Riprenderemo questo argomento della terminazione perché è una delle poche cose sfruttate per cambiare qualcosa nella ricettazione delle poliammidi, in particolare nel caso della poliammide 6.
Dobbiamo far notare che i due componenti principali, la diammina e il diacido devono essere dosati in quantità equivalenti dal punto di vista delle molecole presenti nel sistema (quantità molari equivalenti); quindi la stechiometria della reazione deve essere controllata molto accuratamente.
Per chiarire meglio il concetto facciamo un esempio con la poliammide 66.
L’acido adipico ha un peso molecolare di 146 dalton, l’esametilendiammina di 116. Io dovrò dosare i due componenti mantenendo il rapporto in peso tra i due componenti il più vicino possibile a 146/116=1.259.
Ovviamente dal punto di vista pratico ci sarà sempre un piccolo scostamento da questo valore per tutta una serie di motivi (maggiore evaporazione di uno dei due componenti, piccoli errori di pesata, ecc.). Finché rimane piccolo lo scostamento da quel valore non ci sono problemi ma se uno dei due componenti è maggiore anche solo di pochi decimi di percentuale rispetto all’altro, esso agisce da regolatore del peso molecolare, anche se in maniera nettamente più blanda di un regolatore monofunzionale.
Per utilizzare l’esempio precedente se io ho 22 maschi e 26 femmine non riuscirò a formare una catena sola, ma si formeranno 4 catene che saranno iniziate e terminate da femmine: conseguentemente avrò una lunghezza media di catene quattro volte inferiore. Vale a dire (22+26)/4=12 unità medie per catena, sempre con una distribuzione delle lunghezze variabile.
Nel caso pratico l’effetto è assai più blando che non negli esempi che abbiamo presentato in quanto, per motivi di equilibrio chimico, non tutte le catene possono essere terminate; gli esempi sono sempre fatti per far capire la logica con cui si deve affrontare il problema ma non possono mai essere esaustivi in quanto dovremmo considerare molti altri fattori di cui l’esempio, per semplicità di trattazione, non può tener conto.
Riscriviamo ora la reazione tra spezzoni di polimero nel corso della polimerizzazione:
Questi due diversi gruppi che reagiscono si trovano sempre sul terminale della catena delle due macromolecole in accrescimento. Abbiamo evidenziato in grassetto OH sul COOH e uno degli idrogeni H del gruppo NH2 per mostrare che insieme formano H2O, che se ne va, consentendo ai gruppi NH e CO di unirsi fra di loro per formare il legame ammidico NH-CO.
Con T abbiamo indicato i terminali della catena opposti a quelli che stanno reagendo; nel caso delle poliammidi AABB, come la PA66, questo terminale T può essere indifferentemente un NH2 o un COOH a seconda che l’ultimo monomero che si trova lì in quel momento sia la diammina o il diacido (nell’esempio fatto precedentemente questo non poteva accadere ma ricordiamo che era solo un esempio). La freccia a fianco dell’acqua (H2O) sta a significare che essa se ne va dal mezzo reagente in quanto alle temperature di polimerizzazione (250- 290°C) quando essa si forma si trova allo stato di vapore acqueo. Attenzione però, perché non se ne va tutta e la percentuale di quella che rimane, come vedremo poi, è importante perché decide il peso molecolare che possiamo ottenere.
Inizialmente, quando si hanno solo i prodotti di partenza (monomeri), le concentrazioni di gruppi amminici e carbossilici è altissima e quindi la reazione procede rapidamente. Mano a mano che le catene si allungano, la concentrazione dei gruppi amminici e carbossilici terminali diminuisce e, conseguentemente, anche la velocità di reazione diminuisce. In compenso ogni evento reattivo congiunge due catene via via più lunghe e quindi ogni evento reattivo incrementa in maniera esponenziale la lunghezza delle catene, il che compensa in parte la diminuzione di velocità della reazione.
Tale tipo di meccanismo di reazione è chiamato “polimerizzazione a stadiâ€, proprio in ragione del fatto che l’aumento della lunghezza delle catene – e quindi del peso molecolare – avviene per stadi incrementandosi mano a mano che la reazione procede. Per molti altri tipi di polimeri, detti polimeri di poliaddizione, il meccanismo è totalmente differente e nella polimerizzazione del nylon 6 esiste, nella prima parte dello svolgimento del processo, anche tale reazione, che però non entra in gioco nella fase finale quando è la policondensazione a regolare il peso molecolare esattamente come avviene nel nylon 6.
Le catene così ottenute saranno costituite da una successione di legami “ammidici†formatisi per la suddetta reazione (ecco il motivo per cui si chiamano “poliammidiâ€) e all’estremità di ogni catena ci possono essere o gruppi terminali amminici o carbossilici, come abbiamo già evidenziato in precedenza. Nel caso della poliammide 66 avremo contemporaneamente presenti nel sistema i sottostanti tre tipi di catene di polimero:
unità ripetentesi lungo la catena macromolecolare (peso molecolare=226)
- H-[-NH-(CH2)6-NH-CO-(CH2)4-CO-]n-OH esametilendiammina acido adipico
- HOOC-(CH2)4-CO-[-NH-(CH2)6-NH-CO-(CH2)4-CO-]n-OH
- H-[-NH-(CH2)6-NH-CO-(CH2)4-CO-]n-NH-(CH2)6-NH2
Facciamo notare che l’unità che si ripete lungo la catena contiene il gruppo ammidico NH-CO che caratterizza le poliammidi. Quindi abbiamo due monomeri di partenza ma una sola unità che si ripete in maniera identica lungo la catena del polimero ed è quella evidenziata in grassetto, la quale ha un peso molecolare che si calcola da quello della esametilendiammina (116) meno quello dei due idrogeni (1+1=2) spariti a formare acqua (116- 2=114) più quello dell’acido adipico (146) meno i due OH (2×17=34) spariti per formare acqua (146-34=112): il risultato sarà la somma di 114+112=226 dalton. Tale risultato si piò ottenere anche sommando i pesi molecolari di esametilendiammina e acido adipico e sottraendo due molecole di acqua (2×18=36): infatti 116+146-36 = 226. Le catene di tipo 1. contengono egual numero di molecole di esametilendiammina e di acido adipico. Quelle contrassegnate con 2. contengono una molecola in più di acido adipico e quindi hanno entrambi i terminali con il gruppo carbossilico (COOH). Quelle contrassegnate con (3) contengono una molecola in più di esametilendiammina e pertanto saranno terminate da entrambe le parti con gruppi amminici (NH2).
A che lunghezza media possono arrivare queste catene macromolecolari?
Tutto dipende dalla reazione di equilibrio di policondensazione, argomento del quale parleremo in seguito. Passiamo ora alle poliammidi formate da un solo componente: le poliammidi AB.
Poliammidi AB
Fino ad ora abbiamo visto poliammidi formate da due componenti iniziali (monomeri), una diammina e un diacido. Perché si formi una catena non è però necessario avere due monomeri di tipo AA e BB, ma basterebbe un monomero che ha nella sua molecola entrambi i gruppi.
Questo monomero genera una poliammide cosiddetta AB.
L’esempio più conosciuto di prodotti di questo tipo sono gli amminoacidi naturali, componenti principali delle proteine. In effetti le proteine sono delle macromolecole che possono essere classificate poliammidi in quanto costituite da catene i cui pezzi – gli amminoacidi – sono tenuti assieme da legami ammidici, esattamente come i nostri nylon. La differenza sostanziale che c’è tra i nylon e le proteine è che gli amminoacidi entrano in catena con sequenze ben precise e determinate dalla copiatura da parte del RNA messaggero di pezzi di DNA, del loro trasporto a livello dei ribosomi che provvedono all’inserzione, uno alla volta, degli amminoacidi secondo quanto “scritto†nel RNA messaggero. Insomma un sistema rapido, condotto a temperature blande (quelle dell’organismo) e con una precisione eccezionale.
La “vita†quindi è da considerarsi formata da “specialissime†poliammidi. I chimici, dopo anni di ricerche sono riusciti a progettare una sintesi di proteine composte da oltre 100 amminoacidi in sequenza predeterminata. Ma ancor oggi è una cosa complicatissima con sistemi elaborati e reazioni seriali che necessitano di computer che programmino tempi e entrate in gioco dei differenti amminoacidi nella voluta sequenza. Noi polimeristi al massimo facciamo polimeri sequenziali con due-tre monomeri differenti e facciamo pure fatica!!!! La natura è tutta un’altra cosa!
Tornando sulla terra possiamo dire che gli amminoacidi, a partite da amminoacidi lineari alifatici, ci danno la possibilità di sintetizzare poliammidi di tipo AB.
I monomeri di partenza hanno la formula generale HOOC-R-NH2 dove per R possiamo mettere la solita sequenza di gruppi metilenici CH2.
In commercio ne esistono poche e tra queste citiamo le principali:
- Poliammide 6 da acido 6-amminoesanoico HOOC-(CH2)5-NH2
- Poliammide 11 da acido 11-amminoundecanoico HOOC-(CH2)10-NH2
- Poliammide 12 da acido 12-amminododecanoico HOOC-(CH2)11-NH2
Adesso che si è capito il giochino della nomenclatura, risulta chiaro che il numero posto dopo le parole poliammide o nylon corrisponde al numero di atomi di carbonio del monomero utilizzato… se non ci credete, contateli! Anche nel caso della poliammide 6 la reazione di polimerizzazione partendo da amminoacidi è simile a quella descritta inizialmente, con una differenza importante:
Al contrario delle poliammidi AABB le poliammidi AB sono formate da catene che hanno sempre i due terminali differenti: se da un lato c’è un COOH dall’altro c’è un NH2. La equimolecolarità tra i due monomeri delle poliammidi AABB – vale a dire il rapporto molecolare tra diammina e diacido = 1 – nel caso delle poliammidi AB è automaticamente stabilita dal fatto che i due gruppi reagenti, ammina e acido, si trovano sulla stessa molecola di monomero e quindi a un gruppo NH2 corrisponderà sempre, dall’altra parte, un gruppo COOH. Questo fatto semplifica assai la stechiometria del processo.
Ovviamente la reazione di policondensazione funziona come quella descritta per il nylon 66 e alla fine si otterrà un polimero con la seguente formula:
HOOC-(-R-NH¬CO-)n-1-R-NH2
dove “n†è il numero medio di unità che formano la catena.
Nel caso del nylon 6 la formula sarà :
HOOC-[(CH2)5-NH-CO-]n-1-R-NH2
Proprio il nylon 6 si potrebbe pensare che lo si ottenga dalla polimerizzazione dell’acido 6-amminoesanoico. In effetti la polimerizzazione è molto rapida ed è sufficiente scaldarlo al di sopra del punto di fusione (p.f.=207- 209°C) perché inizi la polimerizzazione con eliminazione di acqua.
In pratica non si ottiene il nylon 6 partendo da questo amminoacido in quanto, come tutti gli amminoacidi, è un prodotto solido e come tale di difficile purificazione, soprattutto se lo si deve ottenere con la purezza richiesta per la polimerizzazione e per la successiva filatura (purezza del monomero richiesta > 99.95%).
Solo il nylon 11 viene ottenuto per polimerizzazione di una pasta formata da acqua e amminoacido 11. Quest’ultimo infatti si ottiene abbastanza facilmente da prodotti naturali (olio di ricino) attraverso una sintesi chimica complicata, ma nemmeno eccessivamente.
Per i nylon 6 e 12 si parte dal lattame dei rispettivi amminoacidi.
Il lattame non è una cosa difficile da spiegare: si tratta di far reagire il gruppo NH2 dell’amminoacido con il gruppo COOH dello stessa molecola di amminoacido. Questa reazione formerà , come nel caso della polimerizzazione un gruppo ammidico (CO-NH), ma poiché la reazione avviene tra due gruppi della stessa molecola si formerà un composto chimico ciclico, chiamato appunto lattame. Nel caso dell’acido 6-amminoesanoico si formerà un lattame chiamato comunemente caprolattame (vi risparmiano il nome previsto dalla Nomenclatura Ufficiale IUPAC) oppure anche ε-caprolattame, la cui formula sarà la seguente:
Il caprolattame fonde a circa 68°C e la sua fusione risulta essere abbastanza rapida. Dopo la fusione viene mantenuto caldo in apposite cisterne incamiciate, con circolazione di acqua calda (80-100°C). Tutte queste operazioni, come le successive polimerizzazioni, sono effettuate in ambiente rigorosamente inertizzato, dove non sono tollerate che piccolissime parti di ossigeno: pertanto si tratta di azoto purissimo con un contenuto di ossigeno < 2 parti per milione (ppm). L’ossigeno è deleterio per il caprolattame così come per tutti gli altri monomeri delle poliammidi anche a temperature inferiori ai 70°C. Anche tutte le poliammidi soffrono della presenza di ossigeno in quanto esse vengono lavorate nel range di 200-300°C, temperature alle quali l’ossigeno fa il proprio mestiere e cioè… “ossida†il nylon e il prodotto tende a diventare giallo e formare sottoprodotti deleteri per le successive applicazioni.
Nei paesi più industrializzati, sempreché non ci siano enormi distanze da percorrere, il caprolattame si trasporta liquido (90-100°C) in speciali autocisterne, fortemente coibentate, e viene scaricato liquido direttamente nelle cisterne dell’utilizzatore: tutte le operazioni si effettuano rigorosamente sotto flusso di azoto purissimo. Fino a percorsi che richiedono due o tre giorni di viaggio il caprolattame continua ad essere liquido e quindi non scende mai sotto i 67°C.
Ci si potrebbe domandare cosa potrebbe succedere se il trasporto subisse un intoppo e il prodotto cominciasse a cristallizzare formando una massa solida omogenea all’interno della cisterna: situazione prevista visto che le cisterne posseggono internamente un serpentino di riscaldamento. Arrivati in zona di scarico vengono connessi alla linea del vapore a bassa pressione e ivi lasciati per un’intera nottata. Al mattino il caprolattame è sciolto e può essere scaricato nelle cisterne dell’utilizzatore.
Come si polimerizza il caprolattame lo scoprirete nel prossimo capitolo.
Poliammidi 6 e 66 per fibre tessili
Se a questo punto il lettore non ha ancora pianto di rabbia per la difficoltà di comprensione dei concetti precedentemente esposti, gli promettiamo che d’ora in avanti la storia diventerà meno tecnica, più scorrevole e forse… più accattivante.
Polimerizzazioni a batch e continue
Sia per il nylon 6 come per il 66 esistono due possibilità base di polimerizzazione e la più utilizzata attualmente, dati i grossi volumi in gioco nel settore del nylon per uso tessile, è quella della polimerizzazione continua; oltre alle maggiori potenzialità che consentono, gli impianti continui sono quelli che garantiscono la migliore qualità . Mentre 60 anni or sono un impianto da 20-25 t/g sembrava qualcosa di esagerato e si viaggiava tra le 5 e le 15 t/g, oggigiorno nelle produzioni di PA6 per uso tessile si prendono in considerazione impianti con produzioni giornaliere che vanno da un minimo di 50 t/g fino a un massimo di 200 t/g; questi ultimi sono impianti mostruosi per dimensione e difficili da gestire dati i quantitativi di materie prime da alimentare che costringono ad attentissime logistiche di approvvigionamento.
Confrontandoli con gli impianti dell’industria chimica pesante (petrolifera, chimica di base di prodotti essenziali, ecc.) sembrerebbe poca cosa, ma dobbiamo ricordare che una fermata accidentale di un impianto di polimero costringe a pulizie e lavaggi che necessitano di un grande lavoro e a perdite di produzione che possono arrivare anche a più di un mese, con conseguenti danni economici di grandissima entità .
Per la produzione di PA66 esistono impianti continui che possono arrivare al massimo a un centinaio di tonnellate al giorno; questa produzione è assai più delicata di quella della PA6 in quanto le temperature in gioco sono decisamente maggiori (si arriva fino a quasi 300°C poiché il polimero fonde a 265°C) e la PA66 è un polimero termicamente assai meno stabile rispetto alla poliammide 6 e non può rimanere allo stato fuso e a contenuti di umidità bassi per tempi superiori ai 40’-50’, pena il suo ingiallimento e la formazione di prodotti reticolati (geli), assolutamente deleteri in filatura.
L’altra possibilità di produzione riguarda la polimerizzazione discontinua (detta anche a batch).
Per le grandi produzioni richieste per la PA6 per uso tessile, la produzione a batch è troppo onerosa in termini di costi produttivi e la qualità decisamente inferiore rispetto alle attuali richieste qualitative del polimero per uso tessile. La produzione batch si attua per polimeri tessili particolari come quelli del settore di tappeti e moquettes; in tal caso si tratta di volumi decisamente inferiori e di prodotti che richiedono particolari tipi di terminatori e andamenti di reazione più spinti che gli impianti continui monostadio difficilmente potrebbero consentire. La produzione di PA66 batch è invece ancora di largo uso.
Il ciclo di polimerizzazione della poliammide 66 parte da una soluzione acquosa in cui è sciolto il sale che si forma tra la esametilendiammina e l’acido adipico.
Ricordiamo che un sale, per definizione si ottiene dalla reazione tra un acido e la base e il nome deriva dal “sale†per antonomasia che è il cloruro di sodio (NaCl) ottenibile dalla reazione tra acido cloridrico (HCl) e idrossido di sodio (NaOH), che è la base: per nostra fortuna il buon Dio ha provveduto a darcene a iosa per cui tale reazione non ci serve per poter avere cibi gustosi, salati a sufficienza.
Tale sale viene preparato in modo che la soluzione abbia un pH corrispondente al punto di equivalenza, cioè il punto in cui l’acido adipico e la diammina sono equimolecolari (questo significa che le molecole di acido adipico sono esattamente uguali alle molecole di esametilendiammina): dato che abbiamo un acido e una base il prodotto che si ottiene è un sale che in soluzione acquosa al 50% di concentrazione ha un pH di 7.65. Tale soluzione viene preparata e stoccata a concentrazioni in peso che possono variare dal 50% al 60% e sono mantenute a temperature variabili tra 40°C e 60°C. Il sale si dovrebbe chiamare adipato di esametilendiammina, una parolona che nessuno vuole usare e quindi lo si chiama sale AH (A sta per acido adipico e H è l’iniziale del termine inglese “hexamethylenediamineâ€) oppure sale N, cioè il sale del Nylon.
Al momento dell’utilizzo la soluzione viene concentrata in apposito concentratore fino a raggiungere una concentrazione dell’80%.
Per uso tessile si aggiunge si aggiunge quasi sempre una sospensione di biossido di titanio (TiO2) quale opacizzante della fibra tessile che sarà ottenuta in filatura: le percentuali di TiO2 variano da minimi di 0.03-0.05% (il cosiddetto lucido o brillantino) fino ad arrivare a 1.3-1.6% (super-opaco), passando per il più comune 0.35- 0.45% (semi-opaco).
A questo punto si carica in autoclave (già calda) la soluzione del suddetto sale e inizia il ciclo di polimerizzazione che consiste in varie fasi; in Fig. 2 abbiamo rappresentato uno dei possibili – e tra i più comuni – cicli di polimerizzazione.
- Riscaldamento È la fase durante la quale la temperatura della soluzione viene portata da 110°C fino a 220-230°C. Contemporaneamente, a causa del 20% di acqua presente nella soluzione iniziale, la pressione viene lasciata salire fino a 17-18 bar. Una fase che dura 15’.
- Pre-polimerizzazione In questa fase, che dura 35’, la pressione viene mantenuta costante attraverso la fuoriuscita controllata del vapor d’acqua formatosi nella fase precedente. È necessario mantenere alta la pressione per lasciare sciolta nella massa reagente una quantità di acqua tale da poter impedire la cristallizzazione del polimero in via di formazione (pre-polimero), cosa che porterebbe alla formazione di un blocco solido all’interno dell’autoclave.
- Riduzione pressione Solo quando la temperatura interna raggiunge i 245°C è possibile cominciare a ridurre la pressione ed eliminare l’acqua dal pre-polimero senza che quest’ultimo possa cristallizzare. Si scende fino a 0.05 bar relativi in circa 40’ e la temperatura raggiunge i 275°C, quindi ben sopra il punto di fusione della PA66, che si situa nel range di 260-265°C. Durante questa fase la polimerizzazione continua e le piccole catene di polimero si congiungono tra di loro per mezzo della reazione di policondensazione che abbiamo discusso in precedenza, vale a dire eliminando acqua dalla massa di polimero fuso e generando in continuo ulteriori legami ammidici per unire tra di loro le catene di pre-polimero.
- Fase di finitura Dura circa 30’ e la si esegue facendo entrare un flusso di azoto che faciliti l’uscita del vapor d’acqua: man mano che l’acqua esce dal polimero fuso l’equilibrio di policondensazione si sposta verso destra dando la possibilità di formare altri legami ammidici, cioè a collegare catene con altre catene così da raggiungere il desiderato peso molecolare del polimero. Al termine di questa fase il polimero fuso ha perso quasi tutta l’acqua e la temperatura ha raggiunto 285°-290°. Polimero secco e alte temperature sono le peggiori condizioni per una poliammide come la PA66 che è termolabile; pertanto si dovrà provvedere a scaricare rapidamente dall’autoclave la massa fusa di polimero.
- Fase di estrusione Questa fase deve durare il meno possibile per ridurre al minimo le termo-degradazioni. Si consiglia di restare al di sotto dei 40’ di tempo. L’estrusione avviene attraverso una filiera con idonei fori circolari (da 40 a 60 fori) da cui esce uno “spaghetto†fuso che viene immediatamente raffreddato in acqua: cristallizza istantaneamente e viene tagliato in una taglierina a lame, generando così granuli cilindrici delle dimensioni di 2.5-3.0 mm di diametro e più o meno altrettanti di lunghezza.
Fig. 2 Ciclo di polimerizzazione della poliammide 66 in una autoclave Batch. In ordinate si riportano a sinistrala pressione (kg/cm2) e a destra la temperatura (°C); in ascisse il tempo di polimerizzazione (min).
In questo modo si ottiene una poliammide 66 con un peso molecolare medio di circa 16000-17000 dalton il che corrisponde mediamente a 70-75 unità base (DPn medio) che si ripetono nella catena del polimero. Questo polimero è idoneo per fibre tessili ordinarie. Qualora si desiderasse produrre fibre tessili ad alta tenacità (tela per pneumatici) si dovrebbe eliminare più acqua dal polimero fuso, ma la cosa richiederebbe tempo e il polimero fuso, come dicevamo, è estremamente termolabile. Pertanto da un impianto batch si possono ottenere al massimo polimeri con pesi molecolari di 17000 dalton. Per ottenerne di maggiori si dovrà successivamente sfruttare un’altra tecnica che si chiama policondensazione allo stato solido (SSP) e si esegue a temperature al di sotto della fusione, direttamente sui granuli: ma questa è tutta un’altra storia e non coinvolge nylon 66 per ordinario uso tessile.
Per quanto riguarda il Nylon 6 lo si produce con cicli analoghi anche se la sua minor sensibilità alla degradazione termica rispetto al nylon 66 consente cicli di maggior durata.
Riportiamo in Fig. 3 un esempio di una ciclo di polimerizzazione in autoclave agitata che, normalmente, non è così tecnicamente evoluta e costosa come quella vista precedentemente.
Il caprolattame viene additivato con acqua: normalmente il range di concentrazione dell’acqua è di 2%-5%, ma ci può essere la necessità di polimerizzare con quantità maggiori di acqua fino al 30%, anche se per il Nylon tessile questa necessità non si presenta quasi mai. In tal caso il ciclo avrà più lunghe fasi di riscaldamento e di sosta alla massima pressione rispetto a quelle riportate nel nostro esempio. Per la maggior parte dei polimeri di uso tessile, come nel caso del nylon 66, oltre all’acqua si aggiunge del biossido di titanio (TiO2) , che ha lo scopo di opacizzare il filo, come richiesto da buona parte delle applicazioni del settore e un regolatore di peso molecolare (terminatore) della cui funzione abbiamo già accennato precedentemente: un argomento che riprenderemo in dettaglio più avanti.
Rispetto al ciclo precedente, la differenza più significativa, oltre al minore potere riscaldante delle autoclavi, sta nel fatto che è permesso utilizzare alla fine il vuoto in quanto, come accennato prima, il fuso di nylon 6 alle temperature finali di circa 260-270°C è termostabile e può rimanere in quelle condizioni anche per 5-6 ore senza che le proprietà del polimero vengano inficiate. L’utilizzazione del vuoto permette l’ottenimento di poliammidi a più alto peso molecolare o, come vedremo in un prossimo capitolo, maggiormente “terminateâ€. Possiamo ottenere nylon 6 che vanno da un peso molecolare minimo di 16000 (catene molecolari medie costituite da 140 unità collegate assieme) fino ad arrivare a un massimo di 40000 (350 unità ).
Fig. 3 Ciclo di polimerizzazione della poliammide 6 da caprolattame. In ascissa c’è il tempo in ore, in ordinata
a sinistra c’è la temperatura e a destra la pressione relativa in bar nella fase di pressione e la pressione assoluta
in mmHg nella fase di vuoto.
Per il nostro polimero tessile gli alti pesi molecolari non interessano, anzi è necessario quel regolatore di peso molecolare di cui abbiamo appena accennato, per ridurre il peso molecolare allo scopo di ottenere il desidera to numero di gruppi amminici terminali su cui si ancora il colorante in fase di tintura e nel contempo stabilizzare il polimero in questa fase. Nel passato si usava quasi escluvisamente acido acetico che reagendo con i gruppi terminali amminici li diminuisce di quel tanto che basta per ottenere una tintura né troppo rapida, quando sono presenti troppi gruppi amminici terminali, né troppo lenta, quando ce ne sono pochi. Questa diminuzione di gruppi amminici ci costringe a spostare l’equilibrio di policondensazione verso destra per mezzo del vuoto che ha l’effetto di togliere più acqua dalla massa fusa del polimero e di conseguenza favorire la policondensazione che tale acqua liberata dal fuso tenta di ripristinarla. Esamineremo questo in dettaglio quando parleremo della storia della regolazione del peso molecolare.
Evoluzione degli impianti negli ultimi sessant’anni
Polimerizzazione del nylon 66
Fig. 4 Autoclave per
produrre batch
di poliammide 66
Per quanto concerne il nylon 66 le migliorie sulle autoclavi degli impianti batch nel corso degli anni sono state notevoli.
Negli anni ‘50 c’erano autoclavi con volumi da 1000-1500 litri che consentivano piccoli batch produttivi (500- 700 kg/batch).
Le autoclavi non erano agitate in quanto a quei tempi non esistevano tenute capaci di resistere a pressioni di quasi 20 bar. Il riscaldamento consisteva in una camicia e un semplice serpentino interno, nei quali passava olio diatermico o vapori di difenile. I tempi per arrivare a 17.5 bar erano decisamente più lunghi per via della bassa superficie di scambio termico. Le autoclavi non potevano superare certe dimensioni in quanto i sistemi di estrusione di allora non permettevano di estrudere ad alta velocità e i tempi massimi di estrusione, come abbiamo detto precedentemente, non potevano superare i 45’, pena la degradazione del polimero all’interno dell’autoclave. Negli anni ’60 e ’70 si cominciò ad inserire l’agitatore in quanto le tenute erano evolute e reggevano la pressione. All’interno c’era un agitatore ad ancora e al centro dell’autoclave, nello spazio tra le pale e la parte esterna dell’ancora, fu collocato un serpentino di riscaldamento che via via diventava più performante, con aumento del numero delle spire attraverso doppie spire una all’interno dell’altra, il che, aggiunto all’effetto positivo sullo scambio termico portato dall’agitatore, raddoppiava la loro superficie di scambio e quindi riduceva ulteriormente i tempi della fase di riscaldamento. Inoltre tali modifiche permettevano l’uso di autoclavi di maggior volume e si arrivò nel range di 1200-1800 kg/batch. Si giunse così agli anni ’80 attraverso tutta una serie di modifiche per ridurre ancor più i cicli di polimerizzazione a beneficio del portafoglio e della qualità che via via migliorava con la riduzione dei tempi del ciclo. Negli anni ’80 si arrivò ad una soluzione ancora più efficace attraverso un sistema di doppia agitazione: una attraverso un agitatore a nastro che porta il materiale verso l’alto; l’altra tramite una coclea che lo traporta verso il basso. L’efficacia dello scambio termico aumentò notevolmente; a questo c’è da aggiungere, collocata a mo’ di separatore delle due fasi di salita e discesa, un sistema a corona circolare in cui circola il liquido diatermico o il vapore di difenile.
Di questi sistemi se ne sono proposti diversi ma con identico scopo: ottenere la massima superficie di scambio termico congiuntamente con la massima velocità di scambio.
Tali soluzioni permisero di arrivare a batch da 1800-2400. Nella Fig. 4 potete vedere quest’ultima soluzione, la cui efficacia è tale da permettere di avere cicli che possono scendere anche al di sotto delle 3 ore, durante le quali si evapora quel 20% di acqua presente nella soluzione del sale AH a cui c’è da aggiungere il 13.7% di acqua proveniente dal sale che, polimerizzando, la perde via policondensazione, il che corrisponde all’11% di acqua sul globale della soluzione salina immessa: sommato al precedente 20% si arriva a 31% di acqua da eliminare. Oltre a tale eliminazione, contemporaneamente, avvengono le fasi descritte precedentemente. Potete così capire quanto grande sia lo scambio termico in gioco durante queste tre ore e quanto efficace sia il sistema per ottenerlo.
Polimerizzazione del nylon 6
L’evoluzione della produzione di nylon 6 in batch ha più o meno subito una progressione tecnologica analoga. Negli anni ‘50 piccole autoclavi non agitate nonostante le pressioni massime in gioco si aggirino intorno ai 4- 6 bar: le tenute non dovevano sopportare, come nel caso del nylon 66, pressioni di 20 bar ma avevano l’ardito compito di sottostare alla fase di vuoto che è anche più delicata. Infatti se per la fase di pressione piccole perdite dal premistoppa dell’agitatore possono essere tollerate, nel caso del vuoto la benché minima perdita permette l’ingresso di aria dall’esterno il cui ossigeno rende il nylon giallo e inutilizzabile. Verso la metà degli anni ’60 la tecnologia ha permesso di introdurre l’agitazione e i tempi di polimerizzazione si sono ridotti migliorando nel contempo l’omogeneità del prodotto.
Nei due decenni successivi si sono migliorati gli scambi termici e in qualche caso è stato introdotto un serpentino interno all’autoclave per poter ridurre ancora i tempi; il serpentino interno ad un’autoclave è sempre un punto debole perché soffiature nelle saldature o cricche anche di lieve entità danno seri problemi; nella fase di pressione il polimero entra nel serpentino e fa un disastro mentre nella fase di vuoto è l’olio diatermico che entra nel polimero: se non ci si accorge in tempo si otterrà per lunghi periodi un polimero inquinato di olio diatermico e i reclami non tardano ad arrivare. In entrambi i casi si deve smontare tutto e si perdono settimane di lavoro. Inoltre la presenza contemporanea di agitatore e serpentino potrebbe creare disastri in caso ci siano problemi al sistema riscaldante di cui non ci si accorga in tempo e il polimero comincia a cristallizzare sotto agitazione provocando un autentico disastro.
Nel caso del nylon 66 il rischio lo si deve accettare perché quei serpentini, per quanto spiegato prima, sono indispensabili: per il nylon 6 forse il “gioco non vale la candelaâ€.
Per il nylon 6, dopo la polimerizzazione è necessaria una fase di lavaggio in quanto la reazione di polimerizzazione – la poliaddizione di cui abbiano accennato precedentemente – gioca su un equilibrio che non consente di trasformare più del 89-91% di caprolattame in polimero. Rimane pertanto nel polimero 9-11% di un miscuglio di caprolattame (7-8%) e di tutta una serie di oligomeri ciclici (2-3%) che non si è trasformata in polimero: deve essere assolutamente eliminata se si vuole filare il polimero. Pertanto il polimero va estratto con acqua demineralizzata fino a che la percentuale di tale miscuglio scende a valori inferiori allo 0.7%.
Dopo il lavaggio il polimero contiene circa 10% di acqua – il nylon 6 è terribilmente igroscopico – e deve pertanto essere essiccato. Entrambe le operazioni sono assai onerose e richiedono tempo: per sistemi discontinui per polimerizzazione, estrazione ed essiccamento si tratta di un totale che può variare dalle 40 alle 50 ore: per i continui si va dalle 55 alle 70 ore.
In questa trattazione non ci occuperemo di estrazione ed essiccamento.
Impianti continui
Gli impianti continui per produrre nylon 66 sono abbastanza complicati e descriverli sarebbe oneroso e richiederebbe molte pagine. In poche parole posso dire che le varie fasi della polimerizzazione, di cui abbiamo parlato precedentemente, si eseguono in una serie di reattori di diversa forma e concezione che però si susseguono a cascata e i vari reattori contengono il materiale fuso che avanza lentamente in orizzontale, tramite grosse coclee, o in verticale; le percentuali di riempimento variano da reattore a reattore dipendendo dalla tecnologia prevista per ogni reattore in ciascuna singola fase.
I reattori continui per produrre il nylon 6 sono più semplici e ne esistono essenzialmente due tipi: monostadio e bi-stadio.
Il reattore bi-stadio può essere di tipo Pressione /Pressione atmosferica oppure Pressione/Vuoto. Il vantaggio sta proprio nel fatto di avere una prima fase (chiamata pre-polimerizzazione) in cui il caprolattame, sotto pressione del vapor d’acqua generato dall’acqua che si inserisce in formulazione, apre il suo anello generando acido amminocaproico che inizia la prima fase della polimerizzazione. Tale meccanismo di polimerizzazione, detto poliaddizione, è un meccanismo a catena in cui si genera una poliammide 6 a basso peso molecolare e rimane non reagito il 10% di caprolattame sotto forma di se stesso (≈8%) e dei suoi oligomeri ciclici (≈2%). Nella seconda fase, che può essere condotta a pressione atmosferica o sotto vuoto (pressione assoluta 400-800 mbar), ma sempre rigorosamente inertizzando con azoto, avviene la policondensazione di cui abbiamo ampiamente parlato: il peso molecolare cresce e si arriva al desiderato valore di peso molecolare. Con la fase finale a pressione atmosferica il peso molecolare medio raggiungibile è intorno a 22000 dalton, mentre se si applica il vuoto si può arrivare anche a 30000 dalton.
Fig. 5 Impianto di produzione di poliammide 6 bi-stadio
Il vantaggio del bi-stadio è essenzialmente quello di accorciare la fase iniziale di apertura di anello e di poliaddizione in quanto la pressione accelera l’apertura del caprolattame e di conseguenza iniziano a generarsi più catene di polimero, benché la stessa pressione costringa il polimero a raggiungere dimensioni di catena relativamente piccole (i PM possono variare da 6000 a 9000 dalton a seconda della pressione applicata). Quindi si riducono i tempi di sosta del polimero che alla fine vuol dire produrre più polimero a parità di volumi di reattori. I tempi di sosta in un monostadio vanno da 18 a 24 ore in funzione del progetto. Nel bi-stadio si va da 9 a 14 ore a seconda del ciclo utilizzato e della percentuale di acqua da evaporare.
Per nylon di uso tessile classico gli impianti preferiti sono i monostadio in quanto meno costosi e di più facile gestione. Quando però l’impianto richiesto supera le 70-80 t/g ci costringe a passare al bi-stadio al fine di non dover costruire reattori “monstreâ€.
In Fig. 5 riportiamo un esempio di impianto bi-stadio con le relative temperature di lavoro per entrambi gli stadi. Il monostadio ha una struttura simile a quella del secondo stadio del bi-stadio. In figura noterete che le ore totali sono 20.4 il che sembra contraddire quello che abbiamo appena detto. In effetti il disegno più semplice che avevamo a disposizione si riferisce ad un impianto brasiliano che in quel momento stava producendo a portata ridotta per poter poi in fase di essiccamento incrementare il peso molecolare attraverso la policondensazione allo stato solido (SSP), che è una reazione abbastanza lenta e richiede tempo. Non potendo ampliare l’essicamento a piacimento si è costretti a ridurre le portate. Non avevano intenzione di confondere le idee al lettore!
Evoluzione delle formulazioni
Fortunatamente per quelli che come noi da molti anni lavorano nel settore della polimerizzazione o della filatura, le tipologie dei nylon 6 e 66 per uso tessile sono rimaste costanti per moltissimi anni. Solo in due periodi ben determinati si ebbe qualche cambiamento significativo, almeno nel nylon 6; il nylon 66 possiamo dire che viaggia quasi inalterato dalla sua origine e le uniche piccole modifiche formulative hanno riguardato più che la polimerizzazione la purezza delle materie prime: acido adipico ed esametilendiammina.
Il nylon 66 per tessile è solo leggermente terminato con acido acetico in quanto se si utilizzassero maggiori quantità di terminatori, non potendosi fare vuoto e così spostare l’equilibrio di policondensazione verso destra, si otterrebbero pesi molecolari troppo bassi.
Per capire il perché riprendiamo dalle pagine iniziali il concetto di equilibrio chimico di policondensazione e cerchiamo di entrare maggiormente nel dettaglio esemplificativo.
Questa equazione rappresenta la sintesi della policondensazione e cioè il modo in cui le catene di polimero già formate proseguono la propria crescita legandosi tra di loro sfruttando la reattività tra i gruppi terminali amminici (NH2) e i gruppi terminali carbossilici (COOH). Da questo incontro si genera una reazione che collega le due catene liberando acqua (H2O). La reazione produce anche calore in quanto l’entropia del sistema si riduce. L’entropia misura infatti il disordine nel mezzo reagente e quindi prima dell’unione delle catene c’era meno “ordine†rispetto a quello che si è creato dopo l’unione e pertanto l’entropia diminuisce (meno catene, meno possibilità di movimento, quindi più ordine e minor entropia). Dato che le forme di energia devono essere conservate (principio della conservazione dell’energia) a una diminuzione di entropia deve corrispondere un aumento di qualche altra forma di energia che in questo caso è quella termica: quindi sviluppo di calore.
La reazione si dice che è “di equilibrioâ€, come moltissime reazioni chimiche. Il concetto di reazione di equilibrio potrebbe sembrare un po’ astruso ma in fondo è facile da intendere. Ogni reazione di equilibrio procede sia da sinistra verso destra che al contrario. Che vada in un senso o nell’altro dipende da un mucchio di fattori quali le concentrazioni dei singoli componenti, le temperature, la pressione e infine dalla “costante di equilibrio†che è caratteristica per ogni reazione. Mentre la reazione verso destra procede i prodotti ottenuti reagiscono per andare verso sinistra ma essendo le loro concentrazioni ancora basse le velocità di reazione di ritorno non è sufficiente a compensare quella di andata. Ma si giungerà a un certo punto che le due velocità di reazione, quella verso destra e quella verso sinistra diventeranno uguali e quindi il sistema rimane in equilibrio, equilibrio che viene detto “mobile†in quanto continuamente ci saranno reagenti che diventano prodotti e prodotti che ritornano a reagenti, ma ad identica velocità . Quale sia questo punto di equilibrio lo regola la costante di equilibrio. La costante di equilibrio è il rapporto tra il prodotto delle concentrazioni dei prodotti (destra) e dei reagenti (sinistra):
Le parentesi quadre indicano che si tratta di una concentrazione in moli, cioè riguarda il numero di molecole. Senza specificare tutti i casi possibili di variazione dell’equilibrio, per i nostri intenti ci basta dire che se io riesco ad eliminare più acqua il numeratore diminuisce; per mantenere la Keq costante deve quindi diminuire in proporzione il denominatore e cioè devono sparire i gruppi –NH2 e –COOH e questo lo possono fare solo reagendo tra di loro e formando altra acqua e altri gruppi ammidici –NH–CO–. Quando siamo nelle fasi finali della polimerizzazione avremo che la concentrazione dei gruppi ammidici è altissima perché il polimero è tutto formato da legami ammidici che legano tra di loro le unità e quindi possiamo dire che la concentrazione, anche formandosi qualche gruppo ammidico in più, sostanzialmente non cambia. Quelli che cambiano sono i gruppi –NH2 e –COOH che continuano a formare acqua per sostituire quella che è evaporata dal sistema. Nel nylon, che è igroscopico, l’acqua rimane disciolta nel polimero anche allo stato fuso, sia pur in quantità minime. Nel caso del nylon 6, se non uso il vuoto e sono, ad esempio, a 260°C avrò disciolto nel polimero 0.16% di acqua a pressione atmosferica. Sostituendo nell’equazione sopra vista la percentuale di acqua nel fuso, conoscendo la concentrazione di gruppi ammidici – che è uguale a 1 in quanto gli NH–CO del caprolattame si ritrovano tutti nella catena del polimero e nel caprolattame non reagito e quindi la concentrazione di NH–CO per molecola di caprolattame vale 1 – e conoscendo la costante di equilibrio alla temperatura in fondo al tubo di polimerizzazione (249°C nel precedente schema di impianto) si ricava il prodotto dei terminali che nel nostro esempio risulterà 2000 (meq/kg)2. Essendo i terminali uguali, in quanto nel nylon 6 le catene avranno un terminale NH2 da un lato della catena e un COOH dall’altro, come già spiegato, si può ricavare il numero di catene (in mmoli/kg) facendo la radice quadrata di 2000. Dal numero di catene si ricava il peso molecolare. Nell’esempio risulterà essere 22000 dalton. Quindi nei reattori continui o nelle autoclavi se non si utilizza il vuoto questo è il massimo peso molecolare che posso ottenere.
Applicando il vuoto la quantità di acqua sciolta nel polimero diminuisce, l’equilibrio si sposta a destra in quanto i gruppi amminici e carbossilici reagiscono per tentare di riformare l’acqua sottratta dal vuoto: questo significa che altre catene si uniranno e otterrò un peso molecolare maggiore. Se con il vuoto applicato l’acqua disciolta nella poliammide sarà , ad esempio, 0.05%, sostituendo questo valore (espresso in moli) nell’equazione della costante e facendo i medesimi calcoli, il prodotto terminali sarà 1200 e il peso molecolare massimo ottenibile salirà a 28700 dalton.
Chiarito questo concetto, riprendiamo il discorso storico.
Dato che inizialmente il nylon nacque per l’industria tessile, il peso molecolare necessario richiesto si aggirava tra 16000 e 18000. Dall’equilibrio risulta che otterremmo 22000 allora è necessario abbassare il prodotto dei terminali. Si decise di bloccare parzialmente i gruppi amminici utilizzando acido acetico come terminatore: a questo punto della trattazione il concetto di terminatore, espresso in mille modi, sarò chiaro… almeno lo speriamo. In alcuni paesi preferirono utilizzare l’acido benzoico in quanto l’acido acetico prodotto a quei tempi conteneva tracce di ferro che tendono a far ingiallire il nylon. Una volta prodotto acido acetico con quantità di ferro inferiori alle 1–2 ppm, l’acido acetico fu definitivamente quello più utilizzato. Negli impianti continui si arrivò ad aggiungere 0.10–012% di acido acetico e il peso molecolare rientrò nel range desiderato.
Quindi negli impianti continui monostadio, che non usano vuoto, abbiamo visto che otteniamo 44.7 meq/kg (radice quadrata di 2000) di terminali amminici e carbossilici. Se io aggiungo 0.12% di acido acetico questi reagirà bloccando 20 meq/kg (vi risparmiamo il calcolo che è comunque semplicissimo) di gruppi amminici secondo la seguente reazione:
Pertanto, essendo l’acqua nel polimero fuso costante e, se non cambiamo temperature e pressioni (260°C e pressione atmosferica), anche la Keq sarà la stessa, avremo che anche il prodotto dei terminali dovrà restare costante sul valore precedentemente calcolato di 2000 meq/kg; ciò significa che se diminuisce NH2 dovrà aumentare il COOH in modo tale che il loro prodotto sia sempre 2000. Facendo dei calcoli molto semplici con un’equazione di secondo grado si ottiene:
[COOH]=55.8 meq/kg [NH2] = 35.8 meq/kg
Come potete vedere dal risultato l’acido acetico, bloccando 20 gruppi amminici (terminatore) ha costretto i gruppi carbossilici ad aumentare e siccome ogni catena del polimero ha un gruppo carbossilico, avremo che il numero di catene da 44.7 mmoli/kg è salito a 55.8 mmolikg e quindi se ci sono più catene, dato che la quantità di materiale è la stessa, si avranno catene di lunghezza minore; infatti al valore di 55.8 catene corrisponde un peso molecolare di 17920 e cioè un valore che rientra nel campo del nylon tessile. Se lo vogliamo più basso aggiungeremo più acido acetico.
Negli impianti batch il problema non sussisteva perché applicando il vuoto si poteva aggiungere molto più acido acetico e infatti se ne usava 0.18-0.19%, quantità che senza vuoto avrebbero prodotto un nylon 6 a peso molecolare troppo basso. Applicando il vuoto, nel polimero fuso rimane meno acqua e la policondensazione può procedere ancora fino ad ottenere il desiderato peso molecolare.
A quel tempo sorse un problema perché chi usava le autoclavi tentava di ottenere un prodotto dei terminali il più basso possibile applicando il vuoto. Il risultato che si otteneva era positivo in quanto il nylon 6 durante la filatura (5’-10’ di permanenza allo stato fuso) non aveva che poca tendenza a incrementare il proprio peso molecolare attraverso la reazione tra i terminali amminici e carbossilici: meno ce n’erano e più il polimero risultava stabile durante la filatura. Per contro i gruppi amminici terminali erano pochi (27-28 meq/kg), la tingibilità lenta e l’affinità tintoriale più bassa.
Problema opposto avevano gli impianti continui monostadio nel periodo ’50-’60, infatti non essendo possibile applicare il vuoto erano costretti ad usare meno acido acetico – pena il calo di peso molecolare a valori inutilizzabili in applicazione – e così il prodotto dei terminali rimaneva alto e il nylon durante la filatura tendeva a salire di peso molecolare. Questo incremento di peso molecolare di per sé poteva essere accettato se il contenuto in acqua del polimero che veniva alimentato nelle tramogge dell’estrusore di filatura fosse stato sempre lo stesso; poiché questo è impossibile, si avevano lotti che salivano di più di peso molecolare e altri di meno. Il filo quindi non aveva un peso molecolare stabile e le pressioni di filatura variavano. Inoltre, avere maggiori pesi molecolari significava che durante la filatura i gruppi amminici reagivano con i carbossilici per far salire il peso molecolare. Quindi il filo a peso molecolare più alto risultava contenere meno amminici e meno carbossilici rispetto a quello a peso molecolare più basso. Meno amminici significava minore tingibilità con coloranti acidi, che sono quelli più utilizzati. Un tessuto composto da fili a più basso e più alto peso molecolare poteva dare delle striature di colore che lo squalificavano. Però i polimeri da continuo avevano il vantaggio che essendo meno terminati avevano più gruppi amminici (44-46 meq/kg) e si tingevano meglio e più velocemente, rispetto a quelli molto terminati ottenuti in batch utilizzando il vuoto.
La SNIA, che negli anni ’60 era il più grosso gruppo produttore di nylon 6 in Italia, risolse il problema del batch applicando un doppio terminatore composto da un’ammina (benzilammina) e acido acetico. Bilanciando i due prodotti si otteneva un filo con 38 meq/kg di gruppi amminici e 35 meq/kg di gruppi carbossilici. Quindi si migliorava la tingibilità per via dei gruppi amminici più alti ma si manteneva la stabilità in filatura perché il prodotto dei terminali risultava assai basso (1400 contro i 2000 dei continui). Questo fu un passaggio di notevolissimo interesse, ma durò poco poiché gli impianti batch andavano scomparendo e i continui aumentavano le proprie capacità a dismisura. Tra gli anni ’80 e ’90 si passò da impianti medi da 20 t/g ad impianti medi da 100 t/g fino a toccare il limite assoluto di 200 t/g.
La BASF, all’inizio degli anni ’90 brevettò un nylon 6 interessante per incrementare le proprietà dei filati: propose l’utilizzo di un terminatore bifunzionale (acido tereftalico o simili) insieme ad un’ammina particolare che è un prodotto utilizzato come base per sintetizzare additivi capaci di incrementare la resistenza alla luce e al calore dei polimeri.
Questo additivo fa parte della categoria delle cosiddette HALS (Hindered Amine Light Stabilizers – Ammine stericamente impedite stabilizzanti alla luce). Lo scopo per cui si usa questo additivo è per migliorare la resistenza al calore della fibra soprattutto nelle fasi più stressanti dei trattamenti post-filatura, specialmente in quella di termofissaggio che con i suoi 190°C applicati per quasi un minuto risulta alquanto critica nei confronti della successiva tintura della fibra.
Contemporaneamente migliora la resistenza termica del polimero e agisce anche da terminatore di catena amminico (come la benzilammina di cui abbiamo accennato in precedenza).
La sua struttura è la seguente:
TAD (Triacetondiammina)
Nomenclatura IUPAC: 4-amino.2,2,6,6- tetrametilpiperidina
Il gruppo chimico NH è un’ammide secondaria che non reagisce in polimerizzazione e questa ammina, circondata da quattro gruppi metili è la struttura tipica delle HALS. Questi prodotti assorbono i radicali liberi che si formano nel polimero per azione della luce o del calore e lo fanno strappando l’idrogeno che si trova sul NH. Il radicale libero passa quindi sull’azoto del NH che nel frattempo, perdendo l’idrogeno, diventa N* (dove l’asterisco sta per l’elettrone singolo tipico dei radicali). L’elettrone singolo, di per sè instabilissimo e tendente a reagire con quasi tutti gli altri atomi, in questo caso si distribuisce sui carboni dei quattro metili vicini e si stabilizza non potendo più far danno: i danni dei radicali liberi sul nostro organismo sono ben noti a tutti, ma anche il nylon ne sa qualcosa!
Quindi questo prodotto si mangia i radicali liberi e rallenta la degradazione del polimero sia alla luce come al calore. Inoltre il gruppo NH, pur non essendo in grado di reagire con i carbossili per continuare la catena da quel lato, offre il grosso vantaggio della tingibilità essendo anch’esso un’ammina, anche più forte del NH2. Questo ci consente ottime proprietà tintoriali.
Il gruppo NH2 dalla parte opposta della molecola si aggancia al nylon reagendo con un gruppo carbossilico, terminando così la catena.
In definitiva, l’accoppiata tra acido tereftalico e TAD permette di ottenere un polimero abbastanza stabile in filatura da essere filato con una certa tranquillità – pur non raggiungendo la stabilità di un nylon 6 ottenuto in batch con il vuoto – essere termofissato in sicurezza e ottenere quelle garanzie di purezza che solo un impianto continuo può fornire.
La Clariant già da anni è sul mercato con un prodotto del tipo HALS nella cui molecola esistono due molecole tipo TAD legate attraverso un gruppo amminico ad un acido isoftalico. Il prodotto è solido e venduto sotto forma di master con base poliammidica, tale da essere aggiunto al nylon in granuli prima della filatura; oppure in polvere in modo da essere additivato anche in polimerizzazione essendo assai solubile nel caprolattame. Oltretutto, non agendo da terminatore, può essere aggiunto anche in percentuali maggiori dello 0.4%, che è invece la massima percentuale di TAD inseribile in polimerizzazione, pena il calo di peso molecolare a livelli inaccettabili.
La sua formula è la seguente:
Con questo abbiamo chiuso il panorama delle produzioni di nylon 6 e 66 per fibra tessile, ma vorremmo dare, a chi non l’ha, un’idea di come sono gli impianti di filatura. Tra i vari possibili abbiamo scelto il POY, che è un tipo di filatura tra le più comuni, per non dire la più comune.
Processo di filatura di POY (pre-oriented yarn) di Nylon 6
Il polimero impiegato per la produzione di POY deve avere caratteristiche chimico-fisiche ben precise per poter garantire al termine del processo di filatura un buon POY. In particolare sono:
- Viscosità in acido solforico al 96% 2.40-2.45 (vale a dire Peso Molecolare tra 16000 e 16700 dalton)
- Contenuto di monomero < 0.20% meglio se < a 0.10%
- Umidità del polimero: in equilibrio con il prodotto dei terminali COOH e NH2
- Buona distribuzione del biossido di titanio con agglomerati di particelle < a 0.80 micron
- Buona stabilità termica, raggiunta tramite l’uso delle HALS
Filatura
Il polimero con le caratteristiche sopra riportate, viene alimentato all’estrusore. L’estrusore, che è una vite senza fine, è scaldato ad una temperatura intorno ai 270°C e ha il compito di fondere il polimero, di miscelarlo perfettamente e di comprimerlo a pressioni > di 100 bar per garantire una regolare alimentazione alle pompe di filatura. Il tempo di residenza in estrusione è solitamente al di sotto dei 5 minuti primi.
Le pompe di filatura sono regolate alla portata di esercizio che, in funzione della velocità di raccolta del POY in bobinatura, deve determinare il titolo esatto del filo di POY.
Le pompe di filatura alimentano a loro volta il pacco filiera che rappresenta il cuore della filatura ed è costituito da un blocco in acciaio contenente una serie di filtri e sabbia metallica, posizionati sopra la filiera stessa. La filtrazione del polimero è fondamentale per bloccare tutte le impurità presenti nel polimero o formatesi durante la fase di filatura e per garantire una regolare alimentazione del polimero ai singoli fori della filiera che sono di dimensioni e sezione diversa a seconda del filo da produrre. Va ricordato che il filo di POY non è costituito da un singolo filamento ma da più fili, pertanto la singola filiera ha più fori che determinano il numero di bave di cui sarà formato il filo.
Naturalmente, più il titolo delle singole bave è basso più le difficoltà di filatura aumentano: si parla di microbave quando il titolo delle singole bave è inferiore o uguale ad 1 dtex. (il dtex rappresenta il peso in grammi di 10.000 metri di filo).
In Fig. 6 Schema di una filatura POY
All’uscita dalla filiera il polimero ha una temperatura di 250-260°C e pertanto ha bisogno di essere raffreddato in modo rapido prima di arrivare sull’ugello di bagnatura dove viene dosata sul filo un’emulsione di acqua e olio. Il processo di raffreddamento viene effettuato dall’aria raffreddata a una temperatura intorno ai 20°C ed è ben orientata contro i numerosi filamenti che escono dalla filiera. È fondamentale la regolarità di questo processo di raffreddamento, perché va a determinare la struttura fisica del filo interagendo in modo diretto con quelle che saranno le caratteristiche di regolarità del titolo e di tenacità ed allungamento del POY finale.
All’uscita dalla filiera il polimero ha una temperatura di 250-260°C e pertanto ha bisogno di essere raffreddato in modo rapido prima di arrivare sull’ugello di bagnatura dove viene dosata sul filo un’emulsione di acqua e olio. Il processo di raffreddamento viene effettuato dall’aria raffreddata a una temperatura intorno ai 20°C ed è ben orientata contro i numerosi filamenti che escono dalla filiera. È fondamentale la regolarità di questo processo di raffreddamento, perché va a determinare la struttura fisica del filo interagendo in modo diretto con quelle che saranno le caratteristiche di regolarità del titolo e di tenacità ed allungamento del POY finale.
Quando il filo arriva sul punto di applicazione di acqua e olio deve essere già completamente freddo per evitare che il contatto con la ceramica vada ulteriormente a deformare la struttura del filo. La funzione di questa emulsione di acqua e olio che viene applicata è quella di favorire la coesione delle singole bave, lubrificare il filo per diminuire il più possibile gli attriti nei diversi e successivi passaggi e, infine, eliminare l’elettricità statica che si andrebbe a creare sul filo stesso.
Dopo la bagnatura il filo di POY passa attraverso un interlacciatore, che consiste in un piccolo accessorio in ceramica che viene alimentato dall’aria a pressioni maggiori di 1 bar. Il filo, mentre passa nell’interlacciatore, viene investito dall’aria che scompagina i filamenti presenti formando allo stesso tempo dei nodi che aumentano la chiusura del filo stesso e ne migliorano al lavorabilità nelle successive fasi di trasformazione.
A questo punto il filo di POY, raffreddato in modo corretto e con un contenuto di acqua olio e numero di nodi desiderati, è pronto per essere raccolto su bobine ad una velocità di circa 4500 m/min.
Lavorazioni successive
Il filo di POY tal quale presente su bobina ha pochissimi impieghi, pertanto deve essere ancora trasformato per ottenere caratteristiche fisiche adeguate a quanto richiede il mercato.
I due principali processi di trasformazione sono la testurizzazione e la stiro/orditura. In entrambi i processi il POY viene stirato portando il suo allungamento residuo dal 70% al 40%, aumentando in questo modo la sua tenacità e stabilità .
Nel processo di testurizzazione il filo viene stirato a caldo (180-190 °C) e poi passa su particolari dischi in ceramica che, girando ad alte velocità , donano al filo una buona elasticità e coprenza. Questo filo viene principalmente utilizzato nel settore della calzetteria e nella produzione di abbigliamento sportivo.
Anche nel processo di stiro/orditura il POY viene stirato e poi utilizzato in tessitura per la produzione di tessuti che vengono successivamente purgati, termofissati e tinti, per essere poi impiegati nel settore dell’abbigliamento.
Si evince che entrambi i processi prevedono una fase di termofissaggio a temperature di 190 °C e per quanto riguarda i tessuti elasticizzati i tempi di termofissaggio sono di 40-50 sec. È un trattamento termico molto energico che un filo di POY proveniente da un polimero non stabilizzato non sopporta senza cambiamenti delle sue caratteristiche chimico-fisiche. In particolare un filo non stabilizzato durante il termofissaggio, attraverso una reazione di post-policondensazione, aumenta il proprio peso molecolare, riducendo i gruppi terminali -NH2 ricettori dei coloranti: la conseguenza è una tingibilità irregolare che si evince dalla presenza di rigature sul tessuto. Gli stabilizzanti al calore che si utilizzano più frequente sono le HALS di cui abbiamo parlato in precedenza.