L’Italia è tra le prime dieci economie nel mondo. Il reddito dei suoi cittadini è elevato, da nazione ricca. Sono conquiste ottenute per la gran parte in molto meno di cento anni, un tempo breve se considerato in una più ampia prospettiva storica. Fino al secondo dopoguerra, infatti, la sua economia era ancora largamente contadina.
Da quasi un ventennio, però, l’economia italiana fatica ad avanzare. L’attuale crisi, infatti, non ha fatto altro che rendere ancora più evidente la sofferenza competitiva che già avevamo ben prima del 2008. In altri termini, l’Italia era “in crisi prima della crisi†e per questo è risultata particolarmente esposta agli effetti della recessione globale, sperimentando la contrazione della produzione in anticipo e più profondamente di quanto è successo nella maggior parte delle nazioni avanzate. Questo è accaduto nonostante la minor vulnerabilità del suo sistema bancario e dei bilanci delle famiglie. Peraltro, il nostro Paese ha potuto contare su un sostegno dal bilancio pubblico decisamente inferiore, a causa dei vincoli imposti dalla elevato ammontare del debito pubblico. Questa situazione critica è resa evidente dal principale indicatore di competitività di una nazione: il Prodotto Interno Lordo pro capite, ovvero la capacità di creare ricchezza per i propri abitanti. Infatti, il PIL italiano, dal 2000 al 2007, è rimasto pressoché fermo in termini assoluti. Se includiamo l’ultimo biennio, che è il biennio della crisi, è andato addirittura indietro del 4,1 per cento. Mentre, in rapporto a quello dei partner dell’area euro, il nostro PIL è arretrato di ben 10 punti, scendendo dalla settima alla dodicesima posizione nel 2009. Stando alle proiezioni di autorevoli istituzioni internazionali, come il Fondo monetario internazionale, il PIL continuerà a retrocedere in termini relativi anche nei prossimi anni. La carenza di crescita potrebbe avere, nel lungo andare, conseguenze molto negative, limitando il benessere, la mobilità sociale ed il progresso. È per questo che la crescita deve essere considerata un valore per la società e quindi gli obiettivi di crescita devono essere alzati.
Anche la legalità e il rispetto delle norme sono strettamente legati allo sviluppo economico: infatti, la cultura del lavoro, la disciplina, la parsimonia, la coscienziosità e il senso del dovere, oltre a essere riconosciuti come validi principi in sé, formano il terreno fertile per lo sviluppo. All’opposto, il diffondersi dell’illegalità e la stagnazione economica si nutrono a vicenda in una spirale perversa. Non è un caso che la mancanza della certezza del diritto, per la confusione normativa e la lentezza della giustizia, siano indicate in Italia tra le cause della lenta crescita e che si riscontri nel Paese il diffondersi di comportamenti meno osservanti delle leggi. È questo già un primo sintomo di disagio sociale dovuto alla scarsità della crescita. Un disagio sociale che fa aumentare l’incertezza verso il futuro. Il terzo tassello è costituito dai fattori demografici che sono un motore cruciale della crescita del benessere. In essi l’Italia ha compiuto una vera e propria rivoluzione dall’Unità a oggi, con il raddoppio della popolazione e gli altri miglioramenti che hanno allungato la durata della vita. Questi successi ora, però, corrono il rischio di arrestarsi o addirittura invertire la rotta: la bassa natalità , ad esempio, un primo preoccupante campanello d’allarme dell’invecchiamento della popolazione. Se guardiamo al quadro globale, invece, secondo i dati delle Nazioni Unite relativi al 2008, nel mondo ci sono 1,2 miliardi di giovani di età 15-24 anni. Fatto 100 il numero totale di giovani nel mondo, il 62% si concentra nei paesi asiatici, mentre solo il 9% in Europa. Se continuano i trend attuali, per numero di abitanti l’Italia è destinata a diventare sempre più “nanaâ€, al pari del resto d’Europa, nel confronto internazionale. Per invertire la rotta, dunque, bisogna innanzitutto investire in politiche, specifiche per i giovani e rendere inscindibili lavoro femminile e maternità . Una caratteristica della popolazione, cioè del capitale umano, dell’Italia è la grande vitalità imprenditoriale, che è simboleggiata dagli oltre quattro milioni di imprese esistenti sul territorio nazionale. Questa realtà rappresenta esperienze che mettono insieme lavoro, capitale e tecnologie per aprire strade nuove verso il progresso economico e sociale, svolgendo, insieme all’attività economica, un ruolo civile cruciale nell’integrare e amalgamare persone e culture. Ciò accade per le grandi, così come per le piccole e medie imprese. Eppure, non sempre la cultura del nostro paese sostiene le iniziative imprenditoriali. Dispiace constatare che oggi in Italia l’impresa non è al centro e ciò spiega, o contribuisce a spiegare, il progressivo rallentamento della crescita, fino al suo arresto. Nelle analisi statistiche sulla libertà d’impresa che il Centro Studi di Confindustria ha di recente curato, l’Italia figura sullo scalino più basso della graduatoria europea.
Questa posizione è frutto:
- dell’ultimo posto per le politiche fiscali,
- del quintultimo per l’invadenza dello Stato,
- del penultimo per le norme sull’attività d’impresa,
- di nuovo all’ultimo per la regolamentazione.
Solo nel lavoro, con il sedicesimo posto e un punteggio analogo alla media europea, il Paese non sfigura (ma nemmeno svetta).
Pur essendo piccola per popolazione (con lo 0,9% degli abitanti della Terra), l’Italia produce attualmente il 2,6% del prodotto globale e detiene il 3,3% del valore delle esportazioni mondiali. Queste quote sono destinate però a scendere con l’affermarsi dei paesi emergenti e ciò comporta il ridimensionamento del peso italiano nello scacchiere internazionale. Il baricentro della produzione a livello mondiale si sta infatti progressivamente spostando. La quota di PIL mondiale prodotto dai paesi emergenti e in via di sviluppo, pari nel 2008 al 27%, sarà il 31% nel 2014 e il 42% nel 2030. Tra i paesi emergenti, la Cina acquisterà sempre più importanza sulla scena mondiale. Nel 2014 diventerà , secondo le previsioni, la seconda potenza mondiale per ammontare di PIL prodotto con un peso sul PIL mondiale dell’11%, superando il Giappone. Il Brasile si collocherà all’8° posto dopo l’Italia, seguito da Russia e India. Si tratta certamente di un evento fisiologico, che però va compreso e affrontato adeguatamente. L’innalzamento degli standard di vita di centinaia di milioni di persone nei paesi emergenti spalanca opportunità nuove, anche se molto diverse da quelle passate, per ragioni di cultura, pressione concorrenziale, distanza geografica. L’aumento del reddito pro capite associato allo sviluppo economico determinerà un aumento della capacità di spesa della “classe media†dei paesi emergenti e sosterrà l’incremento dei consumi. Secondo le previsioni di Global Insight la diminuzione dei consumi nei paesi avanzati sarà più che compensata dalla forte crescita della domanda in Cina e India. Sarebbe perciò un errore di prospettiva guardare ai nuovi equilibri mondiali come ad una perdita, perché si tratta di una tendenza ineluttabile, che accomuna tutte le nazioni avanzate, incluse le maggiori e più potenti. Per l’Italia e per la nostra imprenditorialità può rappresentare la creazione di nuove opportunità di sviluppo.
Ora siamo entrati in una fase diversa della crisi, ma certamente non meno delicata e densa di incognite per il futuro del sistema produttivo italiano e del Paese nel suo complesso. E’ giusto interrogarsi su quale futuro ci attende su come vogliamo essere nel 2020. Bisogna, però, farlo con la consapevolezza che dal tunnel della crisi usciremo molto trasformati, altrimenti non ne usciremo. Tutti gli osservatori concordano nel dire che dalle profondità dei livelli di produzione e di occupazione ormai raggiunti non ci si risolleva con una ripresa “normaleâ€, caratterizzata dal semplice ritorno ai ritmi di incremento e di attività pre-crisi. Il percorso di recupero dei livelli perduti sarà lungo e difficile: le imprese non dovranno solo puntare sulla conquista di nuovi mercati esteri, ma anche sullo sviluppo di più ri9 cerca e sull’innovazione, sull’utilizzo delle nuove tecnologie, e sulla valorizzazione del capitale umano.
Uno dei risultati più fermi dell’analisi economica è il nesso che corre tra gli investimenti in ricerca e innovazione di un’economia e la sua capacità di accrescere il livello di benessere nel tempo. Sul fronte della ricerca e dell’innovazione, è ancora molta la strada da fare per l’Europa e in particolare per l’Italia. Nella ripartizione della spesa per ricerca e sviluppo a livello mondiale si è passati dal modello degli anni 90 ad un modello multipolare. Gli anni 90 vedevano gli USA, l’Europa e il Giappone come principali produttori di conoscenza. Insieme rappresentavano una quota dell’86% della spesa mondiale. Nel modello multipolare le economie asiatiche emergenti stanno giocando un ruolo sempre più rilevante a scapito dell’Europa che ha ceduto all’Asia la seconda posizione per ammontare di investimenti in ricerca e sviluppo. In Europa, poi, l’Italia spende in ricerca e sviluppo una cifra che rappresenta uno dei valori più bassi tra le economie avanzate: solo l’1,1% del PIL, contro il 2,1% in Francia, il 2,5% in Germania e oltre il 3,5% in Svezia e Finlandia. Non è dunque un caso se il nostro Paese arretra nelle classifiche internazionali della competitività e il suo ritmo di sviluppo si è ridotto significativamente negli ultimi due decenni. Su questi aspetti, da tempo, autorevoli studi internazionali hanno indicato le leve su cui agire: incrementare l’impegno pubblico e privato, promuovere la ricerca (anche in stretta collaborazione con le università ) e investire nel capitale umano, migliorando la qualità e la quantità dell’istruzione ed evitando la “fuga di cervelliâ€, anzi attraendo talenti, per esempio con politiche che incentivino l’immigrazione di risorse umane qualificate.
La ricerca e l’innovazione sono legate anche all’utilizzo delle nuove tecnologie che possono rappresentare il motore dell’innovazione. I confronti internazionali provano che chi investe di più in nuove tecnologie – ad esempio quelle ambientali o quelle digitali – ottiene importanti ritorni in termini di produttività e di capacità di crescita. In questi ultimi anni il nostro gap tecnologico si è andato approfondendo, per cui oggi incrementare il volume degli investimenti in tecnologie innovative è un percorso obbligato per il nostro Paese, per accelerare l’uscita dalla crisi e creare nuove opportunità di crescita. Ciò può essere possibile anche attraverso lo sviluppo di vere e proprie piattaforme tecnologiche, di reti e di collaborazioni tra imprese o con le università . Su questo sia lo Stato che le Regioni rivestono un ruolo essenziale.
La conoscenza è determinante per superare il gap creato da fattori esterni all’impresa e competere con i Paesi emergenti sul terreno della qualità . Di conseguenza, la formazione e la qualità delle risorse umane sono fondamentali per la crescita e per creare le risorse necessarie a una società che invecchia rapidamente. Il sistema industriale e manifatturiero italiano ha dimostrato notevole capacità di adattamento ai processi di globalizzazione. Le imprese hanno saputo incorporare innovazione, internazionalizzare le attività e aumentare le dimensioni. Ciò ha consentito nel tempo la crescita dell’export italiano e conseguentemente sostenuto la pur limitata crescita del PIL. Uno dei limiti fondamentali allo sviluppo delle imprese è rappresentato dalla mancanza di molti profili tecnici, indispensabili per le imprese, senza i quali è difficile sostenere la crescente competizione proveniente da Paesi come Cina eIndia che dispongono di un ingente numero di tecnici intermedi e superiori. È necessario, però, un bacino più ampio di professionisti nell’area tecnico-scientifica: è un gap da recuperare con urgenza, per un Paese industriale come l’Italia (primo in Europa per percentuale di addetti manifatturieri sul totale dell’economia), perché la disponibilità di competenze è decisiva anche per l’attrazione degli investimenti. Le aziende industriali occupano per l’80-85% giovani con professionalità tecniche ai vari livelli di istruzione. Le aziende non trovano le professionalità di cui necessitano, pur essendo, purtroppo, in un contesto di non piena occupazione delle risorse umane giovanili. In Italia, secondo le elaborazioni Confindustria su dati Istat, nella situazione pre-crisi del 2007/2008, c’era un deficit di 180.000 tecnici intermedi. Anche nel 2009, nonostante la crisi le imprese non trovano 76.000 tecnici.
Non vi è dubbio che politiche di orientamento inadeguate e progressivo indebolimento dell’istruzione tecnica hanno contribuito fortemente al mis-matching. Il filone tecnico ha rappresentato e continua a rappresentare un asse portante per il Paese. Numerosi studi internazionali, quali ad esempio quelli dell’OCSE, attribuiscono a questo filone le ragioni della competitività di molte aziende italiane, che proprio grazie a questi profili riescono a raggiungere un imprenditoriale pragmatismo innovativo. Il filone tecnico porta un contributo rilevante anche alle Università , ai Politecnici e alle Facoltà tecnico-scientifiche: nel 2006 ben il 30% dei laureati in ingegneria proveniva da istituti tecnici.