Oggi, con decreti attuativi si mette nuovamente al bando il sacchetto di plastica, creando spazio ai polimeri cosiddetti “biodegradabili†altrimenti detti “biopolimeriâ€, ottenuti da sostanze naturali. Per difendersi, la macchina dell’industria dei plastici ha introdotto i cosiddetti oxo-biodegradabili che sono plastiche convenzionali additivate con sostanze chimiche che ne consentono la biodegradabilità . E c’è un movimento che fa pressione affinché a tali materiali venga riconosciuta la conformità alla legislazione vigente (Legge 296 del 26/12/2006, 1129 e succ.). Ma non è oro tutto quello che luccica perché tali materiali, come vedremo, non sono esenti da problemi. Come non lo sono nemmeno le bioplastiche. In questo articolo prenderemo in considerazione i pro e i contro delle varie soluzioni proposte, soprattutto, cercheremo di farvi capire che la plastica in generale non può essere messa al bando, come molte campagne giornalistiche stanno cercando di fare, pena la distruzione di una economia mondiale che è oggi trainante.
Il 1° gennaio 2011 è entrato in vigore il divieto di commercializzazione dei sacchi di asporto merci che, secondo i criteri fissati dalla Normativa Comunitaria e dalle Norme Tecniche approvate a livello comunitario, non risultino biodegradabili (comma 1130 della Legge 26/12/2006, n. 296, come modificato dall’articolo. 23, comma 21-novies del Decreto Legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla Legge 3 agosto 2009, n° 102). Con questo linguaggio in “burocratichese†tanto asciutto quanto ficcante si è venuto a creare un problema di non poco conto nel settore delle materie plastiche. In sostanza la legge dice che i sacchetti dei supermercati devono risultare, secondo le Normative Europee citate, biodegradabili. Sulla base delle definizioni riportate:
- nella Direttiva Europea sugli “Imballaggi e i rifiuti di imballaggioâ€, 94/62/CE, allegato II, paragrafo 3, capoverso d;
- nel Technical Report prCEN/TR 15351 (“Plastics – Guide for vocabulary in the field of degradable and biodegradable polymers and plastic itemsâ€);
è possibile concludere che sono oggi disponibili sul mercato sostanzialmente due tipi di plastica biodegradabile:
- la plastica idro-biodegradabile (idrobio), spesso impropriamente denominata “bioplasticaâ€;
- la plastica oxo-biodegradabile (oxobio).
In entrambi i casi (plastica idrobio e oxobio)
la degradazione inizia come processo chimico e/o biologico (idrolisi ed ossidazione, rispettivamente) e prosegue, ad opera di agenti biologici (batteri e funghi), sui prodotti di degradazione (frammenti) funzionali, che hanno un peso molecolare significativamente inferiore al materiale di partenza. I prodotti idrodegradabili sono molto spesso polimeri prodotti con monomeri biodegradabili (acido lattico ad esempio, saccaridi, ecc.). Sono quindi prodotti sicuramente degradabili. I frammenti a basso peso molecolare alla fine diventano anidride carbonica, acqua e biomassa cellulare in condizioni aerobiche, mentre in condizioni anaerobiche alla produzione di CO2, di H2O e biomassa cellulare si accompagna anche lo sviluppo di metano (CH4).
Ma facciamo un po’ di storia.
I tentativi di rendere biodegradabili le plastiche
All’inizio degli anni ‘80 ho partecipato ad alcune riunioni in sede ISO, dove si doveva decidere se certi polimeri, modificati in sede di polimerizzazione introducendo nella macromolecola gruppi chimici sensibili alla luce, potessero essere usati in sostituzione delle plastiche allora in commercio.
Si discusse molto e la spinta delle aziende che avevano fatto la proposta ad introdurre questi sacchetti fu grande. Ma si arrivò alla conclusione che la sensibilità dei sacchetti alla luce era difficile da dosare e poteva essere che dopo poche esposizioni al sole il sacchetto perdesse di molto le proprie caratteristiche meccaniche o, in caso contrario, sotterrato da qualche parte, rimanesse intatto per molti anni. C’era poi un fatto sostanziale da tenere in considerazione e cioè che la degradazione della macromolecola in pezzi più piccoli, generalmente con terminali polari dovuti al tipo di modifica e agli effetti degradativi, potesse produrre molecole organiche che passavano inalterate nelle acque piovane andando ad inquinare le falde acquifere producendo più danno che non il sacchetto intero.
Questa diatriba dura da anni: si dice che i materiali plastici, e i sacchetti in particolare, sporcano ma non inquinano mentre quelli prodotti con plastici degradabili in spezzoni di catena, se non trovano adatti enzimi che li metabolizzano possono inquinare, facendo più danno. Inoltre le modifiche proposte per rendere il materiale UV sensibile costavano parecchio.
Non se ne fece più nulla.
Ma molti non si dettero per vinti e la ricerca si spostò sui materiali oxo-biodegradabili, nonché sugli idro-biodegradabili.
Vediamo ora di analizzare cosa sono i cosiddetti oxo-biodegradabili e perché sono stati tirati in ballo.
I produttori di materia prima polimerica, e soprattutto di polimeri idrocarburici (polietilene, polipropilene, stirolo, ecc.) notoriamente resistenti a qualsiasi biodegradazione, da anni stavano studiando il modo di rendere tali polimeri degradabili.
E ci riuscirono con l’aggiunta ai plastici convenzionali, soprattutto idrocarburici, additivi metallo-organici (1-5% in peso) che promuovono in maniera controllata la loro naturale propensione all’ossidazione in condizioni aerobiche. Dopo la prima fase ossidante, che spezza le catene macromolecolari del polimero, si ha la fase della metabolizzazione di tali spezzoni di catena polimerica da parte di microrganismi (batteri, funghi e alghe): il risultato sono anidride carbonica, acqua e biomassa cellulare.
Adesso che sappiamo di cosa si tratta vediamo quali sono i punti di positività di questi prodotti secondo le ditte che li propagandano.
- I prodotti additivati sono costituiti da metalli che si trovano normalmente nel terreno e quindi non ci può essere inquinamento; anzi sono co-fattori essenziali per sistemi enzimatici.
- Nel compostaggio insieme ai rifiuti organici si decomporrebbe rapidamente (e qui il condizionale è d’obbligo) in anidride carbonica e acqua.
- Il potere calorifico della plastica oxobio è identico a quella della plastica convenzionale e superiore rispetto a quella della idrobio: comparabile a quella del carbon fossile.
- Può essere riciclata insieme ad altri plastici tradizionali.
- La plastica oxobio riciclata può essere ulteriormente biodegradabile con l’aggiunta di meno additivi rispetto alla convenzionale in quanto già contiene tali additivi all’origine.
- Con la oxo-plastica si salvaguardano i terreni coltivabili che, se adibiti alla coltivazione di prodotti che debbono poi essere convertiti in polimeri, sarebbero sottratti alla coltivazione convenzionale; pertanto i due utilizzi entrano in competizione portando ad un aumento dei prezzi dei prodotti agricoli destinati all’alimentazione, come è già avvenuto in Messico nella cosiddetta “Guerra delle tortillasâ€.
- La lavorazione di polimeri oxo-plastici è semplice e si usano tecnologie convenzionali evitando qualsiasi tipo di investimento aggiuntivo; inoltre le proprietà dei polimeri in fase applicativa non sono dissimili da quelle dei plastici tradizionali.
Questi sono i vantaggi prospettati da coloro che hanno interesse a commerciarli.
Ma c’è sempre un rovescio della medaglia.
Il Bioplastic Council della SPI americana (Society of Platic Industry) evidenzia invece la negatività di questi prodotti oxo-biodegradabily mettendo in risalto i punti negativi. Innanzitutto dà due definizioni base che sono chiare:
- bioplastici: plastici che siano biodegradabili o che contengono basi biologiche, o entrambi;
- plastici biodegradabili: plastici che sono soggetti a biodegradazione (un processo in cui la degradazione è il risultato dell’azione di microrganismi naturali, quali batteri, funghi o alghe) secondo standard industriali accettati.
I polimeri biodegradabili possono essere chiamati: degradabili, biodegradabili, oxodegradabili o oxobiodegradabili, ma per tutti s’intende un plastico tradizionale additivato con additivi specifici che portano alla degradazione.
Purtroppo il termine oxobiodegradabile è un termine ambiguo in quanto non esistono specifiche standard per definire veramente se dopo la degradazione ossidativa ci sia sempre la metabolizzazione degli spezzoni di catena polimerica. Per la compostabilità esistono norme che prevedono che i prodotti debbano degradarsi totalmente in meno di sei mesi. Per gli oxodegradabili questa completa metabolizzazione non è garantita perché necessita di aria, che non sempre può venire a contatto del materiale (immaginate che si trovino sul fondo di immense discariche!). Questi polimeri dichiarati oxo-degradabili contengono additivi che rallentano la velocità di degradazione ossidativa per evitare che la perdita di caratteristiche meccaniche in fase di utilizzo del sacchetto lo renda in pratica inutilizzabile.
Ma non possono essere molto efficaci altrimenti ridurrebbero drasticamente la degradazione e di conseguenza la successiva metabolizzazione biologica.
Altro appunto da fare a questi tipi di plastici è il fatto che durante il processo di degradazione ossidativa assistita la plastica si riduce in piccoli frammenti leggeri
che possono essere trasportati dall’aria ovunque. La biodegradabilità di tali frammenti non è stata dimostrata ed è difficilmente dimostrabile.
Un ulteriore appunto a questi prodotti sta nel fatto che nel riciclo la loro presenza insieme a plastici convenzionali, generalmente della stesa specie, incidono sulle proprietà di tenuta in quanto anche i tradizionali diventano degradabili, il che porta a un notevole svantaggio in termini di garanzia del mantenimento delle proprietà meccaniche nel tempo.
Cosa possiamo fare?
Dopo quanto detto non siamo in grado di dire chi ha torto e chi ha ragione, ma possiamo dire certamente che non abbiamo certezze che l’effetto “sporcoâ€, imputabile alle materie plastiche sparse per ogni dove, sia meno deleterio del possibile effetto inquinante delle oxobioplastiche.
Di una cosa però sono certo: che una soluzione bisogna trovarla.
La soluzione più semplice sarebbe di ordine organizzativo ed è quella più difficile da realizzare. Se tutti facessero raccolta differenziata, se tutti evitassero di buttare, sacchetti, bottiglie e quant’altro dove capita, allora la plastica ci restituirebbe una grandissima quantità di energia nei termovalorizzatori.
Né dobbiamo preoccuparci dell’anidride carbonica che si svilupperebbe poiché rispetto a petrolio e affini le plastiche, se tutte combuste, costituirebbero meno del 3% della produzione di anidride carbonica globale e quindi quasi ininfluenti sull’effetto serra rispetto alla massa di combustibili per autotrazione e produzione di energia elettrica nel mondo.
Ovviamente questo è un discorso utopico e quindi continueremo ad avere inquinamento da residui plastici.
Se pensate che sia poco, vi sbagliate e capirete tra poco il perché la maleducazione civica della gente porta a danni gravissimi per l’ambiente.
Le isole di spazzatura
Da un articolo di qualche mese fa pubblicato da AIM Magazine (Associazione Italiana di Scienza e Tecnologia dei Materiali, un’Associazione con quasi 40 anni di lavoro nel settore dei polimeri e composta da Ricercatori Universitari e del CNR, nonché da tecnici ricercatori dell’Industria) il cui titolo è provocatoriamente interessante “E il naufragar m’è dolce in questo mare… ma sarà ancora vero?â€, trarrò alcuni spunti da presentare ai lettori di questo pezzo.
“Gli oceani sono costellati da detriti di ogni genere e le foto che si trovano nei media sono assai inquietanti: distese sterminate di immondizia galleggiante (Fig. 1), costituita per l’80% da plastica. La maggiore discarica del pianeta si trova proprio nei nostri oceani, o meglio, galleggia sui nostri oceani. E non ce n’è una sola, ma almeno cinque (Fig. 2), dislocate negli Oceani Indiano, Pacifico ed Atlantico. Visibili persino dai satelliti (Fig. 3), sono il risultato dei movimenti delle correnti marine che da anni convogliano i detriti galleggianti ed i rifiuti costieri in zone dalle acque relativamente stabili.
Queste isole prendono il nome dell’oceano in cui sono collocate, seguite da Trash Vortex (vortice di spazzatura) o Garbage Pack (ammasso di immondizia).
Non si conosce ancora con precisione la dimensione di queste isole, né sarà un’impresa semplice calcolarla, perché si tratta di masse in movimento e non esiste uno standard specifico per stabilire il confine fra livelli normali ed elevati di inquinanti nei detriti delle acque pelagiche, cioè lontano dalle coste.
Sono state stimate masse di area variabile approssimativamente fra 700.000 e 34.000.000 km² con uno spessore di 10-30 metri. Per avere un’idea della loro superficie potremmo immaginare un’isola grande tre volte la Penisola Iberica, cioè circa metà dell’Europa, e del peso di 100 milioni di tonnellate. Nell’Oceano Pacifico occupano uno spazio compreso fra lo 0.41 e l’8.1% dell’intera superficie delle acque.
Il termine isola non ci deve, tuttavia, trarre in inganno,
perché non si tratta di zattere su cui si possa camminare, quanto piuttosto di una sorta di minestrone.
La formazione della prima isola ha avuto inizio probabilmente negli anni Cinquanta, cioè quando è iniziata la produzione su larga scala di oggetti in plastica. Da allora ha continuato ad espandersi fino a raggiungere le odierne dimensioni di circa 34 milioni di km². Negli ultimi anni, di pari passo con lo sviluppo industriale e tecnologico dell’Asia, al largo del Giappone se n’è formata un’altra che si sta progressivamente congiungendo a quella già esistente, il che porterà l’isola risultante a coprire una bella fetta del Pacifico settentrionale.
La scoperta
L’esistenza del Great Pacific Garbage Patch fu prevista nel 1988 in seguito agli studi condotti in Alaska da un gruppo di ricercatori che studiavano la plastica galleggiante sull’Oceano Pacifico settentrionale. Sulla base delle concentrazioni misurate dei detriti marini, combinando i dati con ricerche analoghe condotte da scienziati giapponesi e tenendo conto della circolazione delle correnti oceaniche, si cominciò ad elaborare una prima mappa delle possibili zone di concentrazione stabili nell’Oceano Pacifico.
Nel 1997 il velista ed oceanografo Charles J. Moore, erede di una famiglia di petrolieri, di ritorno dalla Transpac sailing race, finì letteralmente in mezzo ad una di queste isole. “Ogni volta che salivo sul ponte vedevo galleggiare spazzatura†– ha detto Moore in un’intervista – “per una settimana mi sono ritrovato in mezzo a un mare di immondizia, a migliaia di chilometri dalla terra fermaâ€.
In realtà , la parte di detriti osservata da Moore costituiva solo la porzione visibile di un inquinamento più profondo che comprende anche una grossa parte invisibile ad occhio nudo, ma non meno dannosa.
Ricerche analoghe hanno portato negli anni successivi ad individuare due zone simili nell’Oceano Atlantico e una in quello Indiano.
Ma anche noi, nel Mediterraneo, non possiamo dormire sonni tranquilli, perché nel 2008, nell’ambito della Campagna CTS di monitoraggio della biodiversità marina – voluta dal ministero dell’Ambiente, della Tutela del Territorio e del Mare – il Veliero dei Delfini ha individuato non solo vari mammiferi marini, ma anche due veri e propri fiumi di plastica. Il più consistente si trova tra Cagliari e le Isole Egadi in Sicilia ed il secondo tra La Spezia e l’Arcipelago Toscano. Entrambi i fenomeni sono stati registrati al largo, lontano dagli occhi e dalla vita costiera, in zone poco trafficate, in cui i rifiuti sembrano incanalarsi in veri e propri fiumi di spazzatura.
Con una semplice ricerca su Internet è possibile vedere foto e filmati delle più importanti spedizioni di ricerca che da anni studiano questo problema.
Le fonti e la tipologia dell’inquinamento
Le isole sono continuamente alimentate dagli scarti che provengono per l’80% direttamente dalla terraferma e per il restante 20% da navi e piattaforme petrolifere.
Tuttavia, l’inquinamento prodotto dalle navi non è da trascurare: una nave da crociera da tremila passeggeri, infatti, produce in media otto tonnellate di rifiuti solidi a settimana. Nel Pacifico le correnti impiegano circa sei anni per portare i rifiuti dalla costa occidentale del Nord America (North Pacific Gyre) in una zona fra la costa della California e le isole Hawaii ed un anno dalla costa orientale dell’Asia.
Recenti ricerche scientifiche hanno rivelato che in realtà tutto l’Oceano Pacifico è invaso da materie plastiche fotodegradate di cui le due isole costituiscono solo la punta dell’iceberg. Infatti, prima dell’introduzione della plastica, la maggior parte dei rifiuti era di origine biologica, per cui, degradandosi, diventavano nutrimento per le specie marine. La plastica, invece, fotodegradandosi, si disintegra in frammenti sempre più piccoli fino a raggiungere forme e dimensioni molto simili al plancton, che traggono in inganno gli animali che finiscono per nutrirsene. In tal modo la plastica entra nella catena alimentare, causando malattie e mutazioni genetiche.
Secondo il Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite, i frammenti di plastica causano, ogni anno, la morte di oltre un milione di uccelli e di oltre centomila mammiferi marini. Questo microinquinamento è così diffuso che, in alcuni campioni di acqua marina raccolti lontano dall’isola del Pacifico, la quantità di plastica supera di sei volte quella del plancton.
Secondo Marcus Eriksen, direttore della ricerca della Algalita Marine Reseach Foundation, questi rifiuti rappresentano un rischio anche per la salute dell’uomo, perché i minuscoli pezzetti di plastica si trasformano in una sorta di spugna per gli agenti inquinanti. Di qui possono entrare nella catena alimentare. “Ciò che cade nell’oceano finisce dentro agli animali e, prima o poi, nel nostro piatto”, ha detto Eriksen in una recente intervista.
Di fronte a queste prospettive anche uno come me che ha vissuto per la plastica e con la plastica si trova in imbarazzo.
Ma non possiamo a questo punto farne a meno.
In un bellissimo documentario, che era stato preparato dalle Associazioni di Categoria quando dopo la metà degli anni ’80 ci fu la crisi dei “sacchetti di plastica†di cui ho accennato nell’introduzione, si vedeva un intervistatore entrare in un ufficio chiedendo un parere sulla plastica. Mentre l’impiegato spiegava che la plastica non serve, che inquina, che è inutile, dietro di lui tutto ciò che era plastica spariva un po’ alla volta e dall’ufficio praticamente sparì quasi tutto, lasciando solo scheletri di acciaio e di ferro.
Stessa scena in una cucina di una casa che rimase praticamente completamente disadorna e con solo strutture metalliche.
Debbo segnalare che, come sempre accade, dietro la messa al bando dei sacchetti di plastica si è accodata la voce dei soliti verdi e molti giornali di grossa tiratura sono usciti con proclami del tipo “Mai più la plastica!â€, frasi di solito riservate alle tragedie (“Mai più la guerra!†oppure “Mai più i lager!â€). E questo è davvero preoccupante perché, se dovessero far presa, l’industria delle materie plastiche sarebbe veramente in pericolo; poiché è una delle industrie trainanti del nostro paese cosa ne seguirebbe? Questa sì sarebbe una vera tragedia con perdite di decine di migliaia di posti di lavoro. Speriamo si stanchino di fare campagne che potrebbero portare solo danno e che comunque necessiterebbero anni per poter essere messe in atto. Sarebbe un cambiamento epocale al quale parteciperebbero involontariamente tutte le industrie che sarebbero così costrette a riorganizzarsi completamente.
A questo punto il mio parere, per quanto possa valere. Dato per scontato che per il momento e per molti decenni della plastica non si può fare a meno ben vengano tutte le soluzioni che riescono a ridurne la possibilità sporcante, ma senza incrementare le possibilità di inquinamento. Visto che la soluzione più semplice che si basa sull’educazione civica dei cittadini richiederà troppo tempo per poter essere messa
in pratica in tutto il mondo – già è difficile qui da noi – dobbiamo sperare quanto segue:
- la ricerca deve assicurare che gli oxo-biodegradabili si comportino veramente come tali, senza ombra di dubbio;
- l’uso dei polimeri naturali, sicuramente biodegradabili, deve essere mantenuta a livelli tali da non influire sul costo delle materie prime alimentari;
- nei supermercati bisognerà tornare allo stile dei nostri nonni e usare borse di tela recuperabili o i bei carrelli dalla grande capacità ; sono certo che l’industria produttrice dei sacchetti di plastica saprà trasformarsi e produrre altri tipi di prodotti in plastica; in tal modo cominceremmo a tirar via un po’ di facili prodotti sporcanti l’ambiente;
- continuare pesantemente con la propaganda per la raccolta differenziata.
Nella speranza che queste proposte possano essere ascoltate e applicate a noi non resta che aspettare… e che Dio ce la mandi buona!