Didattica della chimica una questione aperta

Scienza centrale, pericolo ambientale o disciplina astrusa? Sono le tre affermazioni che avevo scelto alcuni mesi fa, nell’ambito di un corso di aggiornamento promosso dall’ex Provveditorato, per aprire una breve presentazione sulla didattica della chimica nel biennio iniziale della scuola superiore. “Scienza centrale” è l’espressione con cui i chimici spesso descrivono la loro disciplina, alludendo non tanto a un suo primato rispetto alle altre, quanto piuttosto al collocarsi della chimica al crocevia fra le altre aree scientifiche.
“Pericolo ambientale” è invece un riferimento al modo con cui frequentemente l’uomo della strada guarda alla chimica e in special modo alla sua industria: un misto di diffidenza e preoccupazione, quando non di rifiuto, un rifiuto che magari spinge a sparate fra l’ingenuo e il grottesco, della serie “mettiamo al bando tutte le sostanze chimiche” (!). “Disciplina astrusa” è invece il marchio che i nostri allievi “appiccicano” alla chimica che viene loro propinata sui banchi di scuola.
Ho voluto richiamare questi tre concetti perché ritengo che per affrontare correttamente il tema di un rinnovamento nella didattica della chimica vadano tenuti ben distinti. Per esser più chiaro: ho l’impressione che molte delle meritorie iniziative che anche in questo 2011 proclamato “Anno internazionale della chimica” si propongono il rilancio di questa disciplina fra i più giovani puntino soprattutto a dimostrare che siamo di fronte a un’attività assolutamente indispensabile e fondamentalmente sicura; focalizzino cioè l’attenzione sulle prime due affermazioni, evitando bellamente quella che per gli studenti è invece la questione fondamentale: la radicata convinzione che la chimica insegnata a scuola sia qualcosa di vagamente esoterico (“tutte quelle formule”) e fondamentalmente privo di senso.
Si tratta di una situazione ben nota agli insegnanti, ma in genere risolta con un’alzata di spalle: “Problema loro, non capiscono niente!”
Credo invece che “disciplina astrusa” sia una definizione sostanzialmente corretta per ciò che di solito viene somministrato agli allievi nelle nostre scuole superiori. Se guardiamo all’organizzazione dei contenuti, da almeno quarant’anni a questa parte i corsi di chimica generale, a scuola come all’università , hanno assunto un taglio che potremmo genericamente definire “chimico-fisico” in sostituzione di quello “descrittivo”, a metà strada fra la mineralogia, l’analisi chimica e la chimica industriale, che era precedentemente utilizzato.
Non è mia intenzione cantare le lodi del buon tempo antico, mi limito a osservare che a volte la nuova impostazione è stata impropriamente estremizzata: conosco casi, fortunatamente poco numerosi, di allievi quattordicenni costretti ad apprendere (apprendere per modo di dire…) le “caratteristiche di simmetria degli orbitali d”; all’estremo opposto, capita che nello “svolgimento dei programmi” nessuno o quasi, compreso il sottoscritto, trovi il tempo di dedicare uno spazio adeguato alle materie plastiche; mentre si trova il tempo per far recitare agli studenti insulse filastrocche “-ito-ato” per insegnare l’imprescindibile (!) nomenclatura tradizionale.
Non è, ovviamente, solo questione di contenuti: gli insegnanti di materie scientifiche, che siano al liceo o all’istituto tecnico non sembra fare nessuna differenza, sono inguaribilmente innamorati della lezione frontale, anzi della triade “spiego-faccio esercizi-interrogo”. Non mi appassionano le improbabili graduatorie di efficacia tra i diversi format di lezione, né gli indigesti pistolotti sulla vecchia e obsoleta “scuola dell’insegnamento” contrapposta alla nuova e mirabile “scuola dell’apprendimento”.
Più banalmente, credo che il problema vada posto su basi empiriche: la lezione frontale può essere efficace o inefficace, ma se consideriamo l’utenza attuale degli istituti tecnici è del tutto evidente che questo approccio didattico non funziona perché i risultati son lì da vedere, e non è un bel vedere: insufficienze a pioggia, demotivazione, interesse azzerato…
È chiaro che davanti a un quadro così sconfortante (che è un dato di fatto: diversamente non si spiegherebbe tutto quel fervore di iniziative di rilancio messe in campo da scuole, musei, università …) si debbano progettare dei rimedi. Non ci sono al riguardo ricette magiche, anche perché al momento non esistono “buone pratiche” affermate cui far riferimento.
Ritengo però sia possibile e doveroso formulare alcune ipotesi di lavoro, che potrebbero svilupparsi a partire da un dato incontrovertibile: e cioè che gli allievi provenienti dalla scuola media, che non hanno ancora affrontato sistematicamente lo studio della chimica, non manifestano nei suoi confronti alcun pregiudizio negativo, mostrando invece un’evidente curiosità per tutto quel che ha a che fare con le trasformazioni della materia.
Questo interesse è prezioso, e come tale andrebbe preservato e coltivato, anche a costo di sacrificare il sacro “svolgimento dei programmi”, magari approfittando del fatto che dopo la riforma Gelmini lo status dei programmi nelle discipline scientifiche appare alquanto incerto.
Ma come coltivare l’interesse? Credo si debba fare il possibile (e anche qualcosa in più) per riservare ampio spazio ad attività “hands-on”, perché queste riscuotono presso gli allievi un gradimento evidente.
Il problema, ed è un problema non da poco, è che “hands-on” lo siano per davvero: in altre parole, quando si parla di trasformazioni della materia, è necessario che gli studenti ci possano effettivamente “mettere le mani”, e sarebbe quanto mai opportuno che potessero mettercele tutti.
Mi rendo conto che questa prospettiva può apparire abbastanza controcorrente rispetto a quel che di questi tempi si sente dire in giro: che troppo laboratorio “fa male” (no comment…), che il laboratorio dev’essere “hands-on” ma anche “minds-on” (tutti d’accordo sul fatto di usare anche il cervello, ma troppo spesso ho visto attività unicamente “minds-on” spacciate per laboratori), o addirittura che “la didattica laboratoriale è ben altro che il laboratorio” (una tesi senz’altro condivisibile, ma connotata da qualche sfumatura ambigua, quando tende a svalutare il ruolo del laboratorio come luogo fisico, magari per fornire il “doveroso” supporto pedagogico a discutibilissime operazioni di pura economia, come quelle che hanno dimezzato le compresenze nei bienni degli istituti tecnici).
Ma al “Paleocapa”? A che punto siamo nell’affrontare le problematiche cui ho appena accennato? Be’, come al solito ci sono luci e ombre, ma credo valga la pena sottolineare almeno un dato decisamente positivo: dal punto di vista pratico, organizzare sessioni di laboratorio del tipo sopra descritto è decisamente oneroso, e l’Esperia è una delle poche scuole bergamasche a poterlo fare. È oneroso perché occorrono locali più ampi del normale, (e quelli disponibili da noi sono a volte obsoleti, ma ci sono); perché è necessaria una vasta disponibilità di materiali e attrezzature con cui far lavorare tutti gli allievi (e l’ampiezza del reagentario e della vetreria all’Esperia si sono “stratificate” nei decenni e sono ancora abbastanza ragguardevoli); e perché, ultima osservazione ma non certo per importanza, vanno progettate forme di compresenza “allargata”, in quanto il docente e l’insegnante tecnico-pratico possono non bastare per una trentina di quattordicenni che fanno laboratorio per davvero, e se capita di dover chiedere aiuto anche agli assistenti tecnici quelli dell’Esperia hanno ampiamente dimostrato negli ultimi anni di possedere la disponibilità e le competenze necessarie per un efficace supporto alla didattica.