Dalla Seta al Nylon: storia di una sfida vinta ma con finale tragico

Premessa
Sono molte sostanze che hanno fatto la storia del ventesimo secolo e hanno contribuito ai grandi sviluppi che ci sono stati in quel lungo periodo. Molte di queste sostanze sono state scoperte per caso sulla strada di ricerche diverse e sono molti i casi di serendipità che potremmo citare nel settore dei prodotti chimici e dei polimeri in particolare.
Ma non è esattamente così nella storia del nylon che ci accingiamo a raccontare perché in questo caso fu la spinta a trovare un’alternativa alla seta la molla che portò ad ottenere quello che fu il primo serio sostituto di quella meravigliosa fibra naturale che solo la natura è in grado di sintetizzare, con sintesi tanto difficili quanto precise e veloci e con metodi ancora oggi da considerarsi se non irraggiungibili certamente ancora non raggiunti.
Chi scrive deve al polimero di cui andremo a parlare la storia della propria vita scientifico-tecnologica e pertanto si trova in una situazione psicologica che lo porterà a parlarne forse con troppa enfasi, ma almeno con cognizione di causa. Possiamo scusargli eventuali eccessi e la lunghezza del pezzo.
Molte delle notizie storiche sono state traslate da internet, altre da un libro divulgativo interessante dal titolo “I bottoni di Napoleone” in cui si parla delle 17 molecole che hanno cambiato il mondo e il nylon è una di queste.
Speriamo che i lettori possano essere piacevolmente coinvolti da questa storia.

Sulla via della seta

La storia della seta risale a  oltre 4 millenni or sono. La leggenda narra che fu una concubina dell’imperatore cinese dell’epoca ad accorgersi che da un bozzolo caduto nel tè fuoriusciva un filo molto sottile e resistente.
Un’altra leggenda cinese racconta che la nascita della bachicoltura la si dovrebbe ad un’imperatrice di nome Xi Ling Shi, moglie dell’imperatore Giallo Huangdi; Xi
Ling Shi passeggiando notò un bruco, lo sfiorò con un dito e dal bruco spuntò un filo di seta! Man mano che il filo fuoriusciva dal baco, l’imperatrice lo avvolgeva attorno al dito, ricavandone una sensazione di calore. Alla fine vide un piccolo bozzolo, e comprese improvvisamente il legame fra il baco e la seta.
Che sia stata una concubina o un’imperatrice risulta chiaro che in questo caso solo l’intuizione femminile poteva trovare l’aggancio tra baco e seta.
Comunque sia avvenuta la scoperta che da un bozzolo si potevano ricavare fili con lunghezze che potevano variare da un minimo di 300 metri fino a quasi 3 chilometri, non è certo leggenda il fatto che l’allevamento del baco da seta nacque in Cina in periodi non molto lontani a 2 millenni prima di Cristo.
I primi passi furono molto lenti e gli abiti di seta erano considerati preziosissimi tanto da essere riservati solo per la famiglia imperiale e la nobiltà che la circondava. Solo molti secoli dopo fu permesso anche ai ricchi non nobili – gli unici che potevano permetterselo – di indossare abiti di seta.
Nei secoli successivi la seta fu ambita anche all’ovest e così si creò, molto lentamente ma inesorabilmente, la famosissima Via della Seta che nel massimo commercio est-ovest arrivò a coprire i 10000 km tra Pechino e Bisanzio, Antiochia e Tiro. Vicino all’anno zero i carichi di seta cinesi cominciarono ad arrivare in Europa con regolarità, ma la sericoltura restò un segreto appannaggio dei cinesi per ancora molti secoli e il contrabbando delle uova del bombice e dei semi di gelso era punito con la morte.
Narra la leggenda che nel 552 due monaci nestoriani nascosero uovo e semi di gelso in canne di bambù svuotate e arrivarono a Costantinopoli e così inizio la sericoltura anche in Europa. Leggenda o non leggenda è chiara l’impossibilità di mantenere troppo a lungo un segreto di tal fatta.
La seta divenne comunque un materiale pregiato e dai costi elevati che solo le classi più abbienti e la nobiltÃ
potevano permettersi.
Per un paio di millenni la seta rimase uno dei tessuti più pregiati e nessuno riuscì a produrre un tessuto tanto bello quanto delicato: ci vollero Staudinger e la sua teoria delle “grandi molecole” per poter arrivare a qualcosa di simile alla seta. Ma andiamo con ordine[1].

La struttura della seta
La seta, come molte fibre di origine naturale, è una proteina.
La fortuna di questa macromolecola proteica sta nel fatto che i gruppi sostituenti R della molecola degli amminoacidi che la costituiscono sono gruppi piccoli considerando che per più del 80% la seta è costituita dal ripetersi della serie glicina-serina-glicinaalanina- glicina-alanina. Nei tre amminoacidi costituenti la serie i gruppi R sono idrogeno, metile e idrossimetile, vale a dire i più piccoli fra tutti i sostituenti dei ventidue amminoacidi naturali. Questo fatto dà alla seta la riconosciuta morbidezza.
La presenza dei legami a idrogeno porta, per buona parte del complesso macromolecolare, a una struttura di congiunzione tra le varie macromolecole tale che, insieme alle piccole dimensioni dei sostituenti laterali, spiega le differenti proprietà fisiche della seta che ne fanno un materiale unico nel suo genere: resistenza a trazione, scorrevolezza, lucentezza, sfavillio.
Aggiungiamo poi che il 15-20% degli amminoacidi che non rientrano nei tre già citati contengono gruppi laterali polari che possono facilmente interagire con coloranti naturali o artificiali e così potete capire come questa fibra possa essere tinta molto facilmente con effetti colore strabilianti.
In definitiva possiamo dire che l’accoppiamento delle maggioritarie strutture ordinate alternate con strutture più complesse ha prodotto e produce una così grande varietà di proprietà positive da rendere la bellezza di questa fibra ineguagliabile[1].

I tentativi di imitarla: i polimeri artificiali

Quando la chimica fece passi da gigante – e ci riferiamo soprattutto alla seconda metà del diciannovesimo
e al primo quarto del ventesimo secolo – i tentativi di produrre fibre simili alla seta furono numerosi.
Per citare il tentativo più serio, che dette il là poi ai successivi, possiamo dire che intorno al 1880 tale Hilaire de Chardonnet, allievo di Pasteur all’Università, si ricordò di aver accompagnato il professore a Lione per una ricerca su una malattia del baco da seta. Occupandosi di questo argomento aveva speso molto tempo ad osservare come il baco filava la seta[1].
Casualmente, un giorno che stava lavorando in camera oscura per sviluppare delle foto, si accorse che da una goccia di soluzione di collodio, caduta accidentalmente sul tavolo, riusciva a “tirare” fili abbastanza sottili. Da lì a tentare di estrudere tale soluzione dai fori di una filiera artigianale il passo fu oltre che breve anche una logica conseguenza: produsse quindi i primi fili destinati a essere il primo tentativo di imitazione della filatura della seta: la “seta di Chardonnet” appunto!
Ottimo tessuto, resistente e brillante ma con un difettino non da poco: il collodio è nitrato di cellulosaed è di un’infiammabilità spaventosa! Capitò così,ineluttabilmente, che le gentildonne dell’epoca che cominciarono  ad usare il tessuto prodotto con tale “seta artificiale” si trovarono una sgradita sorpresa.
Bastava la cenere di un sigaro per produrre un lampo simultaneo e il completo incenerimento dell’abito: delle sorti delle gentildonne le cronache non dicono.
Ad essere ottimisti possiamo dire che si presero un bello spavento!
Al completo fallimento seguirono vari tentativi di utilizzare cellulose meno nitrate ma alla fine si arrivò alla “viscosa” trovando adatti solventi della cellulosa con i quali si ottenevano viscosissime soluzioni filabili.
Dalla scoperta nel 1901 in Inghilterra alla produzione industriale di dieci anni dopo fino al completo sviluppo degli anni ‘30 la viscosa divenne la “seta artificiale” per antonomasia tanto che prima della seconda guerra mondiale la produzione mondiale era vicina alle 150 tonnellate annue[1].

I polimeri sintetici e le intuizioni di Carothers

Cambiamo scenario e dai polimeri artificiali passiamo a quelli sintetici che alla fine degli anni venti avevano già un loro mercato nel settore dei polimeri.
In quegli anni era in corso una diatriba tra i sostenitori della teoria che i polimeri fossero agglomerati di molecole e i seguaci del famoso chimico tedesco Staudinger che sosteneva trattarsi di grandi molecole. Costui vide riconosciuta la propria intuizione con il premio Nobel solo assai più tardi nel 1953 a dimostrazione che certe teorie sono dure da scalzare, soprattutto se le nuove sono molto all’avanguardia.
Un’eclatante dimostrazione di ciò fu, anni prima, legata ad Einstein al quale il premio Nobel venne assegnatonon per la Teoria della Relatività, per quei tempi troppo rivoluzionaria, bensì per i suoi studi fondamentali sulla fotoelettricità. Nonostante le recenti eclatanti dichiarazioni su supposte velocità dei neutrini nel tunnel Ginevra-Gransasso, che sono costante le dimissione dello scienziato che le aveva erroneamente misurate e inopinatamente sbandierate a tutta la stampa mondiale, la teoria di Einstein continua ad avere un ruolo fondamentale nella fisica moderna.
Ma tornando alla nostra storia possiamo dire che il mondo degli studiosi dei polimeri negli anni ‘20 si era diviso in due scuole di pensiero. Tra i sostenitori delle idee di Staudinger c’era un certo Wallace Hume Carothers, un giovanissimo chimico organico della Harvard University[2].
Costui era uno di quei genietti che nascono di tanto in tanto e che coniugano alla loro genialità quel pizzico di pazzia che non guasta a meno che, come in questo caso, non porti a una fine tragica[3].
I suoi studi primari furono economici ma poi si convertì alla chimica – e già questo è un esempio di versatilità – dimostrando le proprie grandi capacità tanto da diventare, non ancora laureato, capo del dipartimento di chimica… e non sembra cosa da poco[4]! Ricevette master e PhD all’Università dell’Illinois e poi l’insegnamento a Harward nel 1924 – a soli 28 anni – dove cominciò a studiare le strutture dei polimeri[5].
Ecco quanto scrisse i lui, dopo la morte di Carothers,
James B. Conant, che a quel tempo era ordinario di chimica organica ad Harvard[5].
“La permanenza del dr. Carothers a Harvard fu troppo breve. Nel breve spazio di tempo durante il quale fu membro  del dipartimento di chimica impressionò grandemente sia i colleghi che gli studenti. Insegnò chimica organica elementare a una aula piena di studenti.
Sebbene fosse alquanto restio a parlare in pubblico persino ai congressi scientifici, la sua diffidenza sembrava sparire di colpo nelle aule in cui insegnava.
Le sue lezioni erano ben ordinate, interessanti e entusiasticamente recepite dal corpo studentesco anche sepochi di loro avevano pianificato una carriera da chimici.
Nelle sue ricerche il dr. Carothers già d’allora aveva mostrato il suo alto livello di originalità che lo avrebbe contraddistinto nei successivi lavori. Lui non si accontentava per nulla di seguire le strade battute dagli altri o di accettare le usuali interpretazioni delle reazioni organiche. Già ad Harvard aveva cominciato a pensare alla polimerizzazione e alla struttura delle sostanze ad alto peso molecolare. La sua finale rassegnazione ad accettare l’importante incarico nei laboratori di ricerca della DuPont fu una perdita per Harvard ma un grande guadagno per la chimica. Nelle nuove condizioni a Wilmington lui ebbe molte più opportunità per portare avanti le proprie ricerche su una cala che sarebbe stata difficile e forse impossibile nella maggior parte dei laboratori universitari. Tuttavia ognuno di noi, durante la vita accademica, ha nutrito la speranza che un giorno egli avrebbe potuto tornare al lavoro in università. Con la sua morte la chimica accademica e anche buona parte della chimica industriale hanno sofferto una grande perdita”.

Infatti quattro anni dopo la DuPont gli offrì un posto come ricercatore capo di un gruppo che si occupava di ricerche fondamentali, cosa inusuale per le industrie di allora.
All’inizio rifiutò l’offerta, anche se molto vantaggiosa in termini economici, spiegando tale scelta in questo modo: “io soffro spesso di depressione e questo può costituire un problema più serio da voi che non qui dove lavoro ora”.
Un alto dirigente della DuPont andò ad Harward per cercare di convincerlo e ci riuscì[6,7,8,12].
Nel gennaio 1928 iniziò quindi il primo lavoro che aveva lo scopo di ottenere polimeri con peso molecolare maggiore del massimo sino allora di 4200, ottenuto da Emil Fischer.
Impresa non facile che lo portò a scoraggiarsi visto che il risultato non era stato ottenuto nemmeno dopo due anni.
In una lettera inviata al dr. John R. Johmsono della Cornell University il 14 febbraio 1928 dichiarava la sua volontà di ottenere polimeri a peso molecolare più alto di quello fino allora ottenuto da Fischer e nello stesso tempo pianificava le basi della policondensazione, che risultò poi essere la chiave della scoperta del Nylon[5].
“Uno dei problemi che sto iniziando ad affrontare è quello delle sostanze ad alto peso molecolare. Voglio affrontare questo problema dal lato della loro sintesi.
In primis vorrei sintetizzare composti ad alto peso molecolare e di costituzione nota. Sembrerebbe possibile battere il record di Fischer, attestato a un peso molecolare di 4200. Sarebbe una soddisfazione fare ciò e avrei poi rapidamente a disposizione grandi e potenti mezzi per studiare queste nuove sostanze.
Un’ulteriore fase del problema sarebbe quella dello studio dell’interazione tra le sostanze xAx e le yBy, dove A e B sono radicali bivalenti mentre x e y sono gruppi funzionali capaci di reagire tra di loro.
Quando A e B sono molto piccoli tale reazione conduce a semplici anelli, la maggior parte dei quali sono stati sintetizzati proprio attraverso tale metodo.
Quando A e B sono radicali maggiori non si possono formare piccoli anelli per cui si generano anelli di grandi dimensioni o lunghe catene terminate. Deve essere possibile scoprire quale delle due reazioni avviene. In ogni caso le reazioni porteranno alla formazione di sostanze ad alto peso molecolare e contenenti legami noti. Come materiali di partenza ci sarà da scegliere tra i molti acidi bicarbossilici grassi e tra glicoli, diammine, ecc.. Se conosce qualsivoglia di questi tipi di composti le sarei grato se me lo comunicasse”.

Poco dopo un suo assistente isolò il cloroprene durante ricerche sulla chimica della polimerizzazione dell’acetilene e si accorse che il prodotto polimerizzava producendo un materiale similgomma. Era nata la prima gomma sintetica: il neoprene! Altri ricercatori del team di Carothers studiarono la policondensazione di acidi e glicoli per ottenere il poliestere e riuscirono in breve tempo a raggiungere un peso molecolare di 12000: riuscirono a filarlo e a stirarlo per ottenere una fibra. La prima fibra sintetica!
Sfortunatamente tali fibre in acqua calda ritornavano a condensarsi in masse appiccicose.
Ai successi che man mano il gruppo otteneva faceva da contraltare la depressione di Carothers che aumentava vieppiù d’intensità. Cominciò a viaggiare con pastiglie di cianuro poste in un contenitore appeso alla catena dell’orologio. Odiava preparare conferenze, cosa che lo rendeva estremamente nervoso e che lo costringeva ad assumere alcolici. Questo fu il campanello d’allarme di quanto di tragico sarebbe poi avvenuto[9,10,11,12].

Il successo della poliammide e la depressione del suo inventore
Dopo i poliesteri si dedicò alle poliammidi e in breve tempo ne polimerizzò un numero impressionante – più di cento tipi di differenti poliammidi – tra le quali i responsabili della DuPont scelsero la poliammide 66 nonostante l’alto punto di fusione; sembrava infatti quella con le qualità migliori (alta velocità di cristallizzazione e alta percentuale di parte cristallina). Eravamo nel 1934.
Nel 1935 fu prodotta mezza oncia di questo prodotto. In quegli anni si uni al gruppo il venticinquenne Paul Flory che appoggiò Carothers nello studio della cinetiche di poliaddizione e di policondensazione  e come tutti sappiamo Flory è stato uno del “padri” della chimica macromolecolare tanto da meritarsi il Nobel nel 1974. Come potete capire si trattava di un gruppo di ricerca con i fiocchi dal quale sono scaturite scoperte di primaria importanza. Pubblicò centinaia di articoli scientifici e fu titolare di decine e decine di brevetti: fu realmente un lustro che diede alla chimica macromolecolare uno spaventoso impulso che fu eguagliato forse soltanto dalle scoperte di Ziegler e Natta realtive alle polimerizzazioni stereospecifiche, negli anni ‘50-’60. Nel corso di questo periodo di fruttuosa ricerca Carothers
sparì e nessuno sapeva dove si fosse cacciato.
Fu trovato in un ospedale psichiatrico di Baltimora dove si era recato per un consulto relativo alla propria galoppante depressione e dove era stato prontamente internato[13].
Dopo questo fatto la DuPont gli affiancò un altro ricercatore esperto per il progetto poliammide 66
mentre per lo sviluppo industriale lavorarono dozzine di chimici e di ingegneri.
Nel febbraio del ‘36 maritò Helen Sweetman che in DuPont lavorava sulla preparazione dei brevetti.
Poco dopo fu eletto Membro dell’Accademia di Scienze, un onore che nessun chimico proveniente dall’industria aveva fino allora ricevuto. Ciò nonostante la sua depressione peggiorava tanto da impedirgli di lavorare e fu ricoverato per un mese in un altro istituto di Filadelfia e poi spedito per due settimane nelle Alpi Tirolesi insieme ad alcuni amici. Mentre questi ultimi tornarono negli States lui volle rimanere solo tra quelle montagne e non mandò notizie a nessuno, nemmeno alla moglie. Nel Settembre dello stesso anno riapparve, senza che nessuno lo sapesse, seduto alla propria scrivania della
Stazione Sperimentale della DuPont. Ma non lavorò più ai progetti e si limitò a saltuarie visite. Nel gennaio del ‘37 morì di polmonite la sorella a cui era molto legato. La depressione e la voglia di suicidarsi divenne ancora
più grande. Tra i molti pensieri che lo spingevano al suicidio c’era quello costante sulla inadeguatezza del proprio lavoro di chimico e sulla scarsità di successi ottenuti. Se questa “inadeguatezza” portasse al suicidio i ricercatori dei tempi nostri, sarebbero pochi i “sopravvissuti”.Sulla propria scrivania teneva una lista dei più famosi chimici che si erano suicidati e prima dell’atto inconsulto ci aggiunse il proprio: era il 28 aprile del 1937. Il giorno dopo, nella propria camera di hotel, sciolse nel succo di limone le pastiglie di cianuro che teneva sempre con sè: usò le proprio conoscenze chimiche per una morte più rapida in quanto sapeva bene che una soluzione acida avrebbe accelerato l’effetto del veleno[14].

Lo sviluppo del Nylon
Le poliammidi lineari, come è la poliammide 66, hanno una struttura base delle catene macromolecolari che permette un facile allineamento di tali catene durante la cristallizzazione, allineamento che si attua con formazione del chain-foldingnella parte cristallina; ma questo allineamento è riproducibile durante lo stiro con formazione di legami a idrogeno tra le catene della parte amorfa che vanno via via orientandosi nella direzione di stiro.
La grande differenza con la seta è la distanza tra i gruppi ammidici in quanto le proteine della seta, essendo poliammidi originate da aminoacidi, presentano un legame ammidico ogni due atomi di carbonio mentre per la poliammide gli atomi di carbonio tra un legame ammidico e il successivo sono mediamente sei. Ma la flessibilità della parte metilenica permette comunque alla poliammide 66 di generare un alto numero di legami a idrogeno sia in fase di cristallizzazione sia nella fase di stiro.
Altra differenza sostanziale è il fatto che la seta è una poliammide di tipo AB, dove i gruppi CO e NH si susseguono lungo la catena, mentre la PA66 è una poliammide di tipo AABB, dove cioè a due gruppi CO seguono due gruppi NH.
Comunque sia, la scelta della poliammide 66 si dimostrò, anche per quel pizzico di fortuna che ci vuole quando si devono fare scelte di questo genere, ottimale.
Quindi la poliammide 66 fu proprio il polimero sintetico che si presentò, meglio di altri, come il miglior sostituto della seta.
Di questo i responsabili della DuPont si accorsero subito e il marketing lavorò al meglio per aprire possibilità di sviluppo del mercato inimmaginabili.
Usci con il nome commerciale di Nylon e tale acronimo si usa ancor oggi per intendere le poliammidi in generale. Ma di questo parleremo più avanti.
La prima applicazione fu per le setole degli spazzolini da denti e il mercato li ebbe a disposizione nel 1938. L’anno successivo furono le calze da donna a farla da padrone e il 66 si dimostrò ideale per tale applicazione: ancor oggi a settant’anni di distanza continua ad esserlo!
Una delle più azzeccate espressioni sfruttate nella campagna pubblicitaria delle calze fu la seguente: “strong as steel and delicate as a spider’s web”. Al di là dell’enfasi il confronto con le calze di seta rendeva questa frase abbastanza veritiera.
Nel ‘40 si vendettero 64 milioni di paia di calze. Poi furono le necessità della guerra a sfruttarne le proprietà. Tele di nylon per il rinforzo di pneumatici, tela per i paracaduti, palloni meteorologici e tanto altro.
Oggi il nylon 66 è usato in moltissimi settori e solo il nylon 6 lo supera in termini di tonnellaggio.
Si sarebbe ricreduto Carothers se avesse potuto assistere a questa rapida escalation?
È difficile dirlo perché molto spesso quelli che soffrono di depressione non riescono a reagire nemmeno davanti alle più ottimistiche situazioni della propria vita.

L’origine dell’acronimo Nylon

Per finire quattro parole sull’origine di questo acronimo.
La versione più gettonata per anni si collegava alla possibilità che il Nylon aveva dato per affrancarsi dalla dipendenza dal Giappone per la seta, proprio quando gli eventi bellici stavano rendendo assai difficile i rapporti tra USA e il paese del Sol Levante.Secondo quella che si sarebbe poi rivelata una leggenda metropolitana, Nylon stava per “Now You’ve Lost, Old Nippon” (“Ora hai perso, vecchio giapponese”).
Prima di questa versione ce n’era un’altra che indicava come NY-LON le iniziali delle due città dove il prodotto sarebbe stato lanciato nel ‘39, cosa peraltro vera solo per New York ma per la quale Londra non aveva giocato nessun ruolo determinante. In realtà quando si trattò di decidere il nome di questa
nuova mirabolante fibra le proposte arrivarono a bizzeffe: se ne contarono più di 400!
Una tra quelle più macchinose che si valutò fu “Duparooh” contrazione di “DuPont Pulls A Rabbit Out Of Hat” (“La DuPont ha tirato fuori un conoglio dal cappello”); sicuramente, per i successi di mercato che ebbe la DuPont, il nylon fu realmente il classico coniglio che un prestigiatore tira fuori dal proprio cilindro, ma se avessero usato questo orrendo nome forse il successo lo avrebbe avuto lo stesso, ma certamente non così rapidamente.
La versione più accreditabile per la storia di questo acronimo sembrerebbe essere, benché alquanto macchinosa, la seguente: partendo da NORUN, che significa nessuna smagliatura, e leggendolo al contrario si arriva a NURON, che si trasformò poi in NULON e infine, con una definitiva modifica, in NYLON.
Pare più una storia di refusi tipografici che la definizione di un acronimo, ma così raccontano varie storie e a noi poveri cronisti non resta che prenderne nota e raccontarvela[15].

Conclusioni
Tra i tentativi di trafugare i segreti della seta, le vampate incendiarie delle sete artificiali, la depressione e il conseguente suicidio nel tentativo di arrivare alle fibre sintetiche, un pizzico di fortuna, grandi talenti e molta lungimiranza, abbiamo percorso un cammino di oltre 4000 anni in poche pagine. Avremmo potuto raccontare molti più aneddoti ma ci rendiamo conto che già abbiamo abusato della pazienza del lettore: non ci resta che sperare di non averlo annoiato troppo e interessato quel tanto che basta per essere gratificati dello sforzo fatto per documentarci e scrivere.

Bibliografia

[1] Penny Le Couteur e Jay Burreson. I bottoni di Napoleone – pagg. 112-129, Edizioni TEA – Milano – Ottobre 2008.R
[2] Hermes, Matthew. Enough for One Lifetime, Wallace Carothers the Inventor of Nylon, Chemical Heritage Foundation, 1996, ISBN 0-8412-3331-4.
[3] Burton, Holman, Lazonby, Pilling & Waddington, Chemical Storylines, Heinemann Educational Publishers, 2000. ISBN 0-435-63119-5
[4] Zumdahl, Susan and Steven. Chemistry. New York, NY: Houghton Mifflin Company, 2007.
[5] Adams, Roger (1940). A Biography, in High Polymers: A Series of Monographs on the Chemistry, Physics and Technology of High Polymeric Substances Vol.1 Collected Papers of W.H. Carothers on High Polymeric Substances, New York, NY: Interscience Publishers, Inc. XVIII
[6] Smith; Hounshell (1985), “Wallace H. Carothers and Fundamental Research at Du Pont”, Science 229 (4712): 436-442, 1985 Aug 2, doi:10.1126/science.229.4712.436, PMID 17738664
[7] Hermes, Matthew. Enough for One Lifetime, Wallace Carothers the Inventor of Nylon, pag.83
[8] Hermes, Matthew. Enough for One Lifetime, Wallace Carothers the Inventor of Nylon, pag.86
[9] Hermes, Matthew. Enough for One Lifetime, Wallace Carothers the Inventor of Nylon, pag.140
[10] Hermes, Matthew. Enough for One Lifetime, Wallace Carothers the Inventor of Nylon, pag.135
[11] Hermes, Matthew. Enough for One Lifetime, Wallace Carothers the Inventor of Nylon, pag.144
[12] Hermes, Matthew. Enough for One Lifetime, Wallace Carothers the Inventor of Nylon, pag.157
[13] Hermes, Matthew. Enough for One Lifetime, Wallace Carothers the Inventor of Nylon, pag.197
[14] Hermes, Matthew. Enough for One Lifetime, Wallace Carothers the Inventor of Nylon, pag. 291. Con citazioni prese dal Wilmington Morning News e dal New York Time del 30 Aprile 1937.
[15] Ofelio Fusco, AIM Magazine – Vol. 56 – Maggio-Agosto 2002 – Macrotrivial pag. 34.