L’etica, la sostenibilità e i paradossi della moda

Articolo pubblicato su Naturalmente Tessile n. 2/2009.

Il paradasso della moda sostenibile

Lo scorso settembre, alle sfilate parigine del prèt-àporter per la stagione P/E 2009, Vivienne Westwood, certo non la più ortodossa tra gli stilisti, ha invitato i consumatori a comprare meno: “Evitate di comprare cose inutili, comprate un solo capo all’anno, il resto vintage: usate diversamente ciò che avete nell’armadio”. L’esortazione anticonsumista era la conclusione di una riflessione ecologista. “Ci vogliono 30 miliardi di dollari all’anno per salvare la foresta Amazzonica. Siamo ad un punto di non ritorno, siamo nel caos più totale, non ce la faremo”! Per togliere ogni dubbio, negli stessi giorni John Galliano,

il direttore creativo di Dior, l’icona del lusso mondiale, ha dichiarato: “Come faccio a chiedere alle donne di essere eccessive o frivole” Preferisco infondere nelle mie clienti un senso di fierezza, forza e integrità”. Siamo dunque ad una svolta eco-etica della moda? Siamo di fronte ad un’accelerazione dei comportamenti che finora hanno avuto vita clandestina nel modo della moda, che si richiamano a sobrietà, slow fashion anziché fast fashion, sostenibilità, qualità e durata dei capi anziché esasperata ricerca di novità o esaltazione dell’eccesso? Si dice che la moda sia un sensibile specchio delle tendenze culturali che animano la società. Così come la minigonna, i jeans e i gadget di Fiorucci sono stati la miglior rappresentazione della svolta giovanilista e pop degli anni sessanta e settanta, si può dire che oggi le preoccupazioni della Westwoood e di Galliano, l’ampliarsi delle sezioni echo-ethic ai saloni come il Pitti, la nuova giovinezza delle fibre naturali, la diffusione dell’uso di cotone organico, fenomeni come American Apparel che fanno dell’etica nei rapporti di lavoro un valore del brand o come Rag Bag, che produce borse dal riciclo di teloni e striscioni di plastica, la diffusione tra tutti i grandi marchi della moda di massa dell’attenzione alla responsabilità sociale dell’impresa ecc. siano tutti segnali, ormai forti e chiari, di un cambiamento epocale nei comportamenti sociali e di consumo? In questo caso, la lunga serie di punti di domanda è obbligatoria. Se infatti da un lato la moda e’ specchio dello spirito dei tempi, dall’altro è portatrice di una contraddizione, forse insanabile, che rende l’espressione moda sostenibile un ossimoro più che un credibile strumento di marketing.

Moda sprecona

Innanzitutto la moda è per sua natura cambiamento, innovazione, inseguimento del fugace spirito dei tempi, è considerare fuori moda, senza valore, ciò che ieri era di moda. In questo senso è una rappresentazione perfetta dello spreco. In termini pratici, si traduce nell’acquistare un nuovo capo di vestiario di moda, riponendo nell’armadio o gettando nei rifiuti un corrispondente capo fuori moda, ancora in grado di assolvere alle sue funzioni materiali, ma reso incapace di assolvere alle sue funzioni immateriali, semantiche e culturali, dall’incalzare ritmo della moda. Gli sviluppi del business della moda nell’ultimo decennio, quelli che hanno portato al successo del FastFashion, o McFashion come è anche stato chiamato, alla moda per tutti a prezzi stracciati (o a prezzi ragionevoli come recitava uno slogan di Zara di qualche anno fa), al continuo, quasi settimanale, flusso di nuovi modelli nei negozi, al ritmo più elevato degli acquisti non fanno che rendere più evidente questa contraddizione. C’è voluto un secolo per trasferire dal rarefatto mondo delle élites, quello delle poche migliaia di clienti che fino ai primi decenni del secolo scorso acquistavano, in tutto il mondo, i costosissimi capi delle maisons della moda, a quello dei consumi di massa l’idea che un capo di vestiario si potesse (o meglio dovesse) gettare solo perché fuori moda. Questa idea, portata nell’ultimo decennio alle estreme conseguenze dal fast fashion: non più una moda a stagione, ma nuovi modelli e colori quasi ogni settimana, e, soprattutto very cheap, mette la natura sprecona della moda sotto i riflettori. Cheap and fast fashion significa moda usa e getta, sollecita l’espansione dei consumi, genera un circolo vizioso. È la rappresentazione, allo stato puro, della soluzione al problema del governo dell’obsolescenza programmata dei prodotti che tutte le industrie dei beni di consumo devono affrontare nell’era post-moderna, in cui per grandi fasce di popolazione di Paesi avanzati, il consumo, ormai indipendente dal soddisfacimento dei bisogni materiali, è rivolto al soddisfacimento di quelli immateriali. A volte poche statistiche valgono più di mille parole. Secondo un recente studio del Cambridge Institute of Manufacturing, in soli 4 anni, tra il 2000 e il 2004 il numero di capi acquistati pro-capite dai consumatori inglesi è aumentato di oltre 1/3 (+37%), anche grazie ad un calo dei prezzi unitari di circa il 15%. Tradotto in volumi fisici di fibre, il consumo di abbigliamento in Inghilterra corrisponde a circa 1milione di tonnellate anno (se aggiungiamo anche i prodotti tessili, in gran parte tessile per la casa, dai tappeti alle tende, alle moquettes, si superano i 2milioni di tonnellate), l’incremento materiale dei consumi è stato quindi pari a circa 350-400 mila tonnellate/anno. Gli studiosi inglesi stimano che il riciclo dei capi usati non supera il 13% del volume. Stiamo quindi parlando di un incremento del volume di rifiuti pari, in un’ipotesi ottimistica, a 300mila tonnellate anno. I rifiuti tessili in Inghilterra rappresentano circa lo 0,7% del totale dei rifiuti non quindi un problema di prima grandezza, ma se lo pensiamo visivamente, l’aumento di 300mila tonnellate l’anno significa tra i 10mila e i 15mila trasporti di rifiuti in più ogni anno, una lunghissima fila di camion in viaggio verso le discariche o, in misura minore, verso i forni inceneritori. Per non parlare dell’aumento di emissioni in atmosfera, da parte dei produttori e dei trasportatori e da ultimo degli impianti di incenerimento. Qui il calcolo è più difficile perché ovviamente si deve tener conto delle diverse tecnologie di produzione e delle diverse distanze di trasporto che variano in relazione ai Paesi da cui si importa, di passaggio si noti che il calo dei prezzi dei prodotti della moda dipende in larga misura dalle importazioni dai paesi a basso costo. Le statistiche aiutano anche a mettere nella giusta dimensione i problemi. La moda e il suo carattere sprecone non rappresenta certo un’ emergenza nella gestione dei rifiuti su scala globale, l’incidenza dell’ 0,7% sul complesso dei rifiuti inglesi ce lo conferma e la tipologia stessa dei rifiuti che non presentano rilevanti problemi di tossicità non li pone in cima alla lista dei problemi. Lo stesso si può dire per quanto riguarda altri aspetti dell’impatto ambientale, la tecnologia ha drasticamente abbattuto i problemi che storicamente coloranti e agenti chimici residui dei finissaggi hanno posto all’industria tessile e della concia. Resta, ovviamente, il problema della carbon footprint, delle emissioni di carbonio in atmosfera generate dai trasporti di fibre e prodotti tessili nella rete degli scambi mondiali. Un generatore di emissioni è in primo luogo la geografia della produzione delle fibre. La mappa della produzioni mondiali di fibre (si veda il numero 0 di Naturalmente Tessile) mostra che i luoghi di produzione del cotone, della lana, della seta, ma oggi anche delle fibre chimiche la cui produzione mondiale è per quasi il 60% concentrata in Cina, sono lontani dai luoghi in cui principalmente oggi si consuma la moda. E non si può ragionevolmente pensare che le lane italiane o altre fibre prodotte o producibili in Europa possano rappresentare una credibile fonte di approvvigionamento per la produzione e il consumo Europeo. Più complesso è il tema delle specializzazioni internazionali della manifattura tessile e della pelle. La ricostruzione dei viaggi delle fibre tessili è spesso sorprendente: cotone americano, filato in Messico, tessuto in Zimbabwe, trasformato in una T-shirt in Vietnam che poi viene stampata o ricamata in Cina e infine riportata per essere venduta negli USA.

Moda, lavoro, sostenibilità sociale

Se il tema della sostenibilità ambientale della moda è nuovo e ancora in gran parte da esplorare, la discussione sulla sostenibilità sociale della moda ha invece una lunga tradizione, ma è oggi non meno complesso.

Tutto è cominciato con gli scandali del lavoro minorile e delle condizioni di lavoro negli sweatshop che producono nei Paesi emergenti che hanno coinvolto in tempi e modi diversi i grandi marchi dell’abbigliamento e della moda, a partire da quelli dello sportswear, non ne citiamo qui nessuno, ma certamente il lettore ne può richiamarne alla mente un buon numero senza difficoltà. La sensibilità dei consumatori su questi temi e collegata in larga parte con il fenomeno della delocalizzazione produttiva e della globalizzazione. Il trasferimento di larghe quote di produzione nei Paesi emergenti che si è verificato negli ultimi decenni del ‘900 ha fortemente ridotto la visibilità da parte dei consumatori sul come i prodotti vengono fabbricati e ha sottratto la produzione al sistema di norme che nei paesi industrialmente avanzati si è costruito nel corso del secolo scorso a garanzia delle condizioni di lavoro. Se quindi i consumatori possono dare per scontato, a torto o a ragione, che un prodotto Made in Italy o prodotto in Europa rispetti le norme che la società si è data (e quindi un’etica condivisa), lo stesso non è possibile fare per prodotti fabbricati altrove, i fatti anzi hanno dimostrato che la delocalizzazione, o la competitività dei paesi emergenti, può essere proprio motivata dalla assenza o insufficienza di norme di protezione. Le campagne su questi temi hanno generato grandi cambiamenti nel modo in cui i marchi più noti gestiscono le politiche di approvvigionamento. Il tema della Responsabilità Sociale dell’Impresa ha fatto breccia nella moda e quasi tutti i grandi brand globali hanno adottato codici etici, protocolli di selezione dei fornitori, modelli di contratto di fornitura che hanno come obiettivo l’eticità della produzione. Approfonditi e dettagliati rapporti sulla Responsabilità Sociale sono disponibili su molti websites di produttori di moda e abbigliamento. Il business della certificazione etica dei fornitori è fiorente. Come è noto, il dibattito sulla affidabilità ed effettiva efficacia dell’applicazione di questi strumenti di controllo è molto vivace, complesso e scivoloso e non è compito di questo articolo aggiungere un’ulteriore opinione (punti di vista critici, spesso molto critici, su questo tema si possono trovare in molti dei websites citati nel box 1). Emerge però oggi un nuovo insieme di sensibilità, quello legato, invece, alle forme del lavoro all’interno dei paesi industrialmente avanzati, alla produzione in Italia, in Europa. Ed è un insieme di sensibilità, che solleva interrogativi, ma anche opportunità, in particolare per le imprese italiane della moda. Non si tratta qui di risollevare il tema tanto discusso, ma che finora ha portato, oggettivamente, pochi o non esaltanti risultati, delle etichette del Made in, sia esso Made in Italy, o un marchio locale, di cui si è fatta esperienza in alcuni distretti italiani. Il tema è complesso è può essere qui trattato solo in pillole. Una prima dimensione è legata allo sviluppo del modello di business Fast Fashion. Il modello organizzativo del fast fashion ha ormai una significativa presenza nell’industria italiana della moda come ha documentato un recente libro, il primo che veramente ha esplorato questo settore nel nostro Paese, il suo fatturato sfiora i 3 miliardi di Euro è ha i suoi centri nervosi al CenterGross di Bologna, al CIS di Nola, al CTM di Cernusco, a Prato, in Puglia. La velocità che sta alla base di questa formula organizzativa richiede una produzione locale, Made in Italy, in Europa o nei casi meno fast, nei Paesi dell’area mediterranea. D’altro canto si rivolge ad un mercato di massa, spesso di basso prezzo. La pressione al contenimento dei costi, alla flessibilità alla velocità a cui i processi produttivi sono sottoposti in queste imprese mal si combina con gli standard dell’organizzazione e dei rapporti di lavoro consolidati nelle imprese più strutturate. Le imprese si trovano quindi sempre in bilico tra lavoro regolare, economia grigia e non infrequentemente lavoro irregolare. La definizione di standard sostenibili per questo settore, in rapida crescita, generatore di posti di lavoro e redditi in Italia è quindi un tema aperto, ma forse ad oggi ancora non compiutamente affrontato. Sul lato opposto del mercato, quello dei prodotti di fascia di prezzo elevata e dei prodotti di nicchia e a forte caratterizzazione, si registra oggi una nuova giovinezza della dimensione local, dalla produzione artigianale delle scarpe di Christian Louboutin, che non possono essere fabbricate altro che a Parigi, al sartoriale maschile della tradizione napoletana, le cui imprese, da Kiton, a Isaia a Rubinacci producono rigidamente in house e localmente.

Anche in questo caso, certamente virtuoso, restano tuttavia molti problemi aperti, da quello della riproduzione delle competenze artigianali, spesso risolto da queste imprese con attività formative interne, a quello della rappresentazione e comunicazione della cultura del localismo, in un mercato delle moda globale e dominato dai lustrini delle sfilate e dai grandi marchi appunto globali, a quello della dimensione delle imprese: è possibile riprodurre questo modello su larga scala o è inesorabilmente legato ad una dimensione artigianale? In entrambi i casi siamo di fronte a fenomeni che mettono in luce i vincoli e le opportunità che la dimensione etica della moda solleva e che sono oggi cruciali per il futuro del Made in Italy.

La moda sostenibile, la lunghezza delle gonne e le crisi economiche

La discussione sulla moda sostenibile ha subito un’accelerazione nell’ultimo anno, da tema di nicchia new age o antagonista, con vita quasi clandestina, è diventata oggetto di discussione degli operatori del business della moda di massa. Due convegni nell’arco di un mese, tra metà aprile e inizio maggio di quest’anno, uno accademico, l’altro  orientato al business, organizzati dall’Università Cattolica di Milano e dal Centro di Firenze per la Moda italiana danno un idea di quanto sia di moda il tema la moda etica e sostenibile. Non si può quindi non porre la domanda (che peraltro è il titolo del convegno di Firenze): ma se fosse solo una moda? È in altre parole il riflesso, la moda è come si sa un sensibile specchio dell’evoluzione della società, di una tendenza di lungo termine, destinata a restare ed influenzare il mercato dell’abbigliamento per lungo tempo, o è una fase di passaggio, una moda tra le altre, destinata a durare poco più di una stagione? Ci si può chiedere, aggiungendo il punto di domanda al titolo di un libro uscito nel 20072: Il verde nella moda è il nuovo nero? Qualcosa come il su e giù della lunghezza delle gonne. E qualcosa di simile alla lunghezza delle gonne in effetti si può leggere tra le pieghe della moda sostenibile. Viviamo infatti in tempi di crisi, finanziaria in particolare, ma con tutte le conseguenze sociali e culturali che una crisi violenta porta con se. I più catastrofisti hanno parlato di 11 settembre dell’economia e di nuovo ‘29. Tra la tragedia delle Twin Towers e la crisi finanziaria globale avviata dal collasso del mercato dei mutui americani vi è almeno un punto in comune: la rapidità di diffusione dello shock. Anche il microcosmo della moda è stato colto di sorpresa. A settembre 2008, quando l’onda d’urto della crisi è arrivata in Europa tra le imprese si respirava un clima non esaltante, ma nemmeno negativo. La stagnazione dei consumi non permetteva previsioni rosee, ma si percepiva soddisfazione per un clima migliore di quello del triennio buio 2003-05 e per aver superato la prova della liberalizzazione dei mercati. Poi improvvisa la gelata.

Nell’ultimo trimestre del 2008 il fatturato delle imprese tessili, che producono i semilavorati e per prime riflettono i segnali del mercato, è crollato del 17%. L’impatto è stato meno violento nell’abbigliamento con un calo del -2,5%, ma con il timore che l’onda si dovesse ancora propagare. I dati sui primi mesi del 2009 ancora non sono disponibili, ma nei distretti della moda italiana, da Biella a Prato, da Como alla Puglia non vi sono dubbi: il 2009 è iniziato anche peggio di come è finito il 2008. Nel 1926, qualche anno prima della crisi del ’29, George Taylor un economista della Wharton School of Business dell’Università di Pennsylvania, ha osservato che l’alzarsi e l’abbassarsi dell’orlo delle gonne aveva una relazione con le variabili macroeconomiche e le crisi di borsa, da allora di tanto in tanto, quando gli indicatori razionali degli economisti falliscono nelle analisi e nelle previsioni, l’Hemline Index (indice dell’orlo) di Taylor rispunta. Puntualmente tra ottobre 2008 ed oggi l’- Hemline Index è stato riesumato dai maggiori quotidiani, dal Financial Times, dal New York Times e in Italia anche dal Corriere della Sera, come è facile verificare con una semplice ricerca su Google. Oggi la moda è un fenomeno meno lineare di quanto fosse ai tempi di Taylor, gonne lunghe e gonne corte convivono nella stessa collezione. Qualche giornalista ha fatto in ogni caso notare che le gonne alla caviglia, indice di crisi secondo Taylor, sono ricomparse in alcune collezioni. Ma non è questo il punto che interessa qui. Il senso sottostante all’Hemline Index è molto semplice, crisi e ripresa influenzano il mood dei consumatori non solo relativamente a quanto spendono ma anche a come spendono e cosa comprano. Che la nuova sobrietà dei consumatori, lo slow fashion anziché fast fashion, la sostenibilità, la qualità e durata dei capi anziché l’esasperata ricerca di novità abbia qualcosa a che vedere con il degradante clima di fiducia connesso alla crisi? Dobbiamo aspettarci che il verde tornerà a lasciare il posto alla moda usa e getta quando la ripresa dell’economia, che i previsori collocano in qualche punto del 2010, comincerà a farsi sentire, allo stesso modo con cui i colori vivaci sostituiscono il nero e le gonne corte quelle lunghe? In altre parole la ripresa riporterà al fashion business as usual o avrà effetti permanenti sull’industria della moda, come quelli che l’11 settembre ha portato nella percezione della sicurezza su scala globale, assecondando una tendenza culturale di lungo periodo? La questione è di quelle dirimenti per il futuro del settore. Se come nel caso dell’11 settembre siamo di fronte ad avvenimenti che cambiano in modo permanente il nostro modo di consumare, le imprese della moda sono avvertite: il mercato non sarà più quello a cui siamo abituati.

Marco Ricchetti

Organizzazioni e websites della moda etica:
Clean Clothes Campaign (Paesi Bassi):
http://www.cleanclothes.org
http://www.abitipuliti.org

Labour Behind the Label (Regno Unito):
http://www.labourbehindthelabel.org
Fair Wear Foundation (Paesi Bassi), Ethical Fashion Forum (EFF):
http://www.ethicalfashionforum.com
No Sweat (Regno Unito):
http://www.nosweat.org.uk
Ethical Fashion Forum:
http://www.intracen.org/ethicalfashion/
OXFAM (Regno Unito):
http://www.oxfam.org.uk
Centre for Sustainable Fashion, London College of Fashion:
http://www.fashion.arts.ac.uk