Stralci da “L’altra metà del tessile. Le fibre man made†pubblicato su Naturalmente Tessile n. 2/maggio 2009.
L’articolo propone un’intervista a Paolo Piana, presidente di una delle più importanti imprese europee di poliestere e di Assofibre Cirf Italia, l’associazione che raggruppa i produttori italiani di filati di sintesi.
A distanza di sei mesi dalla pubblicazione dell’articolo il tema mostra tutta la sua attualità . Lo riproponiamo in versione sintetica promettendo di tornare su questo tema spesso. Le fibre chimiche, e il poliestere in particolare, occupano oltre il 50% delle fibre tessili utilizzate. Il loro grado di compatibilità ambientale è tema di grande importanza.
“The Dark Side of the Fibres†potremmo dire parafrasando l’indimenticabile album dei Pink Floyd. Perché non si può parlare del tessile naturale senza parlare anche delle fibre sintetiche, sorelle minori anagraficamente, dalle incredibili potenzialità applicative e dai costanti trend di crescita. Ogni fibra ha la sua ragione di essere nel mondo incredibilmente vasto del tessile: ragioni estetiche, funzionali, economiche. E spesso le fibre naturali convivono con le sintetiche nello stesso manufatto apportandovi ognuna le caratteristiche peculiari di cui è dotata con un obiettivo comune: aumentare il confort, potenziare gli aspetti performanti, migliorare la mano e altro ancora. Insomma dare valore aggiunto al prodotto finale. L’altra metà del tessile (che comprende le fibre man made) copre ormai la maggioranza dei volumi delle fibre in circolazione nel mondo con una produzione annua equivalente a 50 milioni di tonnellate.
Si può parlare di eco compatibilità dei prodotti di sintesi? Lo chiediamo a Paolo Piana, presidente di un’impresa leader nella produzione del poliestere, Sinterama SpA, e presidente di Assofibre Cirfs Italia, l’associazione delle imprese italiane delle fibre man made. Gli ricordo che l’opinione pubblica non ha difficoltà a trovare piacevolmente bucolichi e quindi ecocompatibili gli allevamenti di pecore mentre associa un impianto di estrusione del poliestere a visioni di inquinamento e pericolosità ambientale. “Probabilmente non è necessario -risponde Pianaricordare come, tanto la legislazione europea quanto quella nazionale siano rigorose nel verificare l’impatto ambientale di uno stabilimento produttivo come sia quantomeno ingenuo non considerare nel costo ambientale complessivo anche l’effetto che le produzioni naturali hanno sull’ambiente in termini di consumi di acqua e vegetazione, o, nel caso delle fibre vegetali, di utilizzo di diserbanti, insetticidi, agrofarmaci e quant’altro. Darò per scontato che sia chiaro ai lettori quanto l’ecologia sia materia complessa,
che và ben al di là dei desideri umani soprattutto quando non si tratta di produzioni di nicchia, come nel caso delle fibre nobili destinate a realizzare pochi preziosi maglioni ma grandi produzioni industriali finalizzate a servire i consumi di massa o le commodity. Mi interessa invece proporre un’altra riflessione: i consumi di fibre chimiche sono cresciuti costantemente e questo trend ha intensificato la loro produzione che nel 2008 ha sfiorato la quota di 50milioni di tonnellate. Se quei consumi fossero soddisfatti solamente da fibre naturali come ad esempio il cotone, dove troveremmo spazio per coltivare il cibo di cui le popolazioni del mondo hanno bisogno o per far crescere gli alberi indispensabili alla nostra atmosfera? I consumi delle fibre tessili, naturali e non, sono in continua crescita, sia per l’aumento della popolazione mondiale, sia perché ricerca e nuove tecnologie hanno consentito al tessile di acquisire spazi in ambiti da cui fino a pochi anni fa era escluso come ad esempio nei trasporti, nel geotessile, nell’edilizia. Ora il tessile vi compare e spesso addirittura in sostituzione di materiali di altra natura, come nel caso dei compositi che costituiscono parti essenziali di aeroplani e barche. È quindi evidente che serva disporre di materiali che non richiedano ettari e ettari di terra per essere prodotti e che siano inoltre dotati di performances tecniche adeguate a questi contesti applicativi: la tenacità , la leggerezza, l’ininfiammabilità ed altro ancoraâ€.
In realtà la scarsa vocazione ecologica del poliestere e delle altre fibre sintetiche viene identificata nella sua dipendenza dal petrolio. “Certo, ma il dato che sfugge alla maggior parte delle persone è che le nostre fibre comportano solo lo 0,4% degli utilizzi di petrolio. Il dato assurdo non è che il petrolio serva a produrre polimeri utilizzabili in contesti svariati, destinati a durare per molto tempo e infinitamente riciclabili ma che lo si usi in modo pressoché totale per consumi di breve durata come illuminare, viaggiare, scaldare gli ambienti. Possiamo infatti dire che le fibre sintetiche hanno invece un elevato standard di sostenibilità , usano al meglio una risorsa scarsa come il petrolio, non la bruciano ma la trasformano, la fanno durareâ€.
E in fase di produzione? Impianti di estrusione o di testurizzazione sono notoriamente energivori. “Le imprese europee, e ancor di più quelle italiane, hanno fatto moltissimo per diminuire il proprio impatto ambientale ed energetico, se non altro per compensare i divari di costi dell’energia che come è noto in Italia sono il 30% maggiori di quelli di altri paesi europei. Quando analizziamo un prodotto per definirne la sua eco sostenibilità dobbiamo però considerare molteplici fattori. La produzione certo è uno di questi, forse il più rilevante, ma non dimentichiamo i costi di trasporto, l’energia necessaria per garantire il mantenimento e la pulizia del prodotto stesso durante il suo ciclo di vita. Apparentemente un fazzoletto di cotone è più ecologico di uno di carta, in fondo si tratta di due prodotti a base cellulosica, ma quanto incide ad esempio l’energia destinata a lavare e a stirare quel fazzoletto?â€.
In altre parole il Carbon Footprint delle fibre man made sarebbe più basso di quanto si può supporre a prima vista? “Gli studi in corso sulla Carbon Footprint, cioè sull’impatto globale in termini energetici e di CO2, – risponde Piana-
dimostrano che le fibre man made hanno una performance migliore di altre fibre se si considerano i costi di trasporto, i consumi di acqua, l’utilizzo di fonti energetiche ad alto contenuto di CO2 nelle produzioni extraeuropee, e via dicendo. Il dibattito sul cambiamento climatico e il rafforzamento delle politiche ambientali e di risparmio energetico uniti all’esplosione del prezzo del petrolio, alimentano le tendenze verso possibili politiche di marketing di stampo ‘ecologico’, basate su parametri quantitativi, orientate alla Carbon Footprint dei prodotti tessili, in particolare con l’ipotesi di etichette che riprendano il contenuto di CO2 o elementi che evidenzino un basso contenuto di CO2. Per esempio è in corso un progetto della Commissione Europea sulle emissioni di autoveicoli (grammi di CO2/km), sulle fibre artificiali da polimeri esistenti in natura, sui monomeri ottenuti da processi biochimici, sui prodotti ottenuti da riciclo di altri materiali. Inoltre non vanno dimenticate le conseguenze dei protocolli degli accordi di Kyoto e delle Emission Trading. Uno scenario complesso che investe aspetti economici, legislativi, trend di consumo e nel quale i produttori di fibre chimiche intendono porsi con grande disponibilità al confronto ed apertura verso soluzioni innovative. Si tratta di iniziative importanti, ma mi preme ribadire un concetto: anziché alimentare atteggiamenti dettati solo da prese di posizione ideologiche è importante che si predisponga un sistema di rilevamento oggettivo ed univoco dei dati relativi alle emissioni, una sorta di contabilità corretta che precluda un’informazione speculativa come spesso oggi accade di leggereâ€.
Lo scenario geo-produttivo delle fibre man made è però cambiato, ora la produzione sembra concentrarsi sempre più nella aree asiatiche. Questa tendenza non rischia di far abbassare i livelli di attenzione sull’ecocompatibilità delle produzioni? “Effettivamente, osservando i dati relativi alle produzioni mondiali di fibre chimiche non si può non osservare che la produzione americana ed europea è rimasta sostanzialmente costante intorno ai 5 milioni di tonnellate di fibre annue, seppur con qualche lieve flessione, mentre la produzione asiatica è stabilmente cresciuta fino a raggiungere la vetta dei 35 milioni di tonnellate. Molti fattori hanno determinato questo trend e sarebbe superficiale ricondurli solo alle strategie di contenimento dei costi attivate dalle imprese occidentali, che pure esistono. In realtà a spostarsi in quelle aree è stata una parte rilevante della filiera del tessile e questo induce i produttori di materie prima a operare là dove il mercato lo richiede,
oltre al fatto che i governi locali hanno attivato le politiche di sviluppo industriale che ben conosciamo. È per altro evidente che l’attività di un insediamento produttivo in Cina o in Pakistan sia meno vincolata a normative di rispetto ambientale e a norme di sicurezza di quanto non avvenga in Europa. Occorre però considerare che le imprese di cultura occidentale che operano in quelle aree lo fanno adottando le tecnologie meccano tessili e chimiche più innovative e realizzate quindi con criteri occidentale ed esportando un’idea dell’ essere impresa che non può essere sfruttamento puro e opportunistico di vantaggi ambientali. Un impianto di poliestere, ad esempio, rappresenta un investimento rilevante, pensato per durare e quindi è realizzato con logiche di rispetto delle condizioni ambientali esistenti. In altre parole è finito il tempo del capitalismo mordi e fuggi. Non fosse altro perché alla lunga si è mostrato antieconomicoâ€.
Parliamo ora di consumi. Qualche anno fa Assofibre ha realizzato un’iniziativa di comunicazione, “Vestire informati†che puntava a sfatare alcuni luoghi comuni sulle fibre chimiche. “Le aziende associate ad Assofibre credono molto nella necessità di contribuire a diffondere un’informazione corretta tra i consumatori affinchè gli stessi siano in grado di decidere come fare i loro acquisti sulla base di dati reali. Sentire ancora accusare le fibre chimiche di essere fonte di irritazione alla pelle, ad esempio, fa un po’ sorridere considerando che gli atleti e gli sportivi in genere che affrontano prove spesso di straordinario impegno, affidano il loro successo anche a tessuti tecnici che garantiscono prestazioni maggiori rispetto ad altre fibre tradizionali. Ma al di là della disinformazione del singolo consumatore ci preoccupano gli indirizzi assunti dai consumi collettivi. I Green Public Procurement, sviluppati in sede europea e implementati in modo disomogeneo a livello locale, hanno l’obiettivo di dare agli acquisti della Pubblica Amministrazione un orientamento di sostenibilità ambientale e di ‘esempio’ nei confronti dei cittadini/consumatori e dei soggetti economici. Appare evidente che i GPP gestiti con una visione dello sviluppo sostenibile più emozionale che razionale rischiano di escludere dagli acquisti pubblici categorie di prodotti (bottiglie di plastica, tovaglie e camici usa e getta, eccetera) che invece mostrano un bilancio ambientale migliore di altri prodotti se lo stesso viene considerato in una logica corretta di impatto ‘dalla culla alla tomba’ con l’analisi del ciclo di vita del prodotto e utilizzando le forme più corrette di raccolta e smaltimento/riclico dei rifiutiâ€.
Mai come in questo periodo i consumatori hanno iniziato a riflettere sul significato culturale ed ambientale di quello che comprano e questo è un processo che và a vantaggio di tutta l’industria di qualità . “Certamente, ed infatti ben vengano anche i Green Public Procurement, sarebbe un errore considerarli come strumenti inutili per raggiungere un miglior equilibrio ambientale ed energetico. È però necessario affrontare questi temi in modo scientifico e con rigore. L’allarmismo disinformato non serve a nessuno, l’esperienza mostra che l’aggressività tipica di certe forme di marketing porta con sé seri rischi di rafforzamento di stereotipi non giustificati (ad esempio nella contrapposizione tra fibre naturali e sintetiche) non utili al raggiungimento di finalità di promozione di una cultura di risparmio energetico, riciclo, sostenibilità e di sensibilità ai cambiamenti climaticiâ€.
Al di là delle iniziative di informazione quali le strategie prioritarie delle imprese delle fibre chimiche? “La crisi che ha investito l’industria mondiale – conclude Piana – non ha certo risparmiato il nostro comparto che continuerà a focalizzare la sua azione sulla ricerca e sulla definizione di prodotti ad elevata specializzazione come condizione di indiscutibile competitività internazionale. E la ricerca nel nostro comparto non è più solo finalizzata ad attribuire valore aggiunto ai prodotti, alla funzionalizzazione dei materiali ad uso protettivo e performante, ai biopolimeri realizzati anche con nanotecnologie, per fare solo alcuni significativi esempi, ma è oggi fortemente orientata al riciclo dei materiali polimerici. È bene ricordare infatti che quella della reintroduzione nel ciclo produttivo di materiali di scarto è una prassi già ampiamente adottata dai produttori di fibre man made soprattutto nella filatura in fiocco e nei nontessuti. Sul piano della tecnologia di produzione invece la centralità è data al risparmio energetico e alla ottimizzazione delle risorse di processo.Ma si tratta di una strategia che condividiamo con tutti i settori produttivi senza la quale è in forse il futuro stesso dell’essere industria nel mondoâ€.
Aurora Magni