I polimeri si tingono di giallo. Una nota di colore sull’industria dei polimeri in cina

di Roberto Filippini Fantoni (Articolo gentilmente concesso da AIM Magazine e modificato dall’autore rispetto all’originale.)

Quando il Presidente

della nostra Associazione mi ha chiesto un articolo di interesse per la rivista ho pensato a un pezzo scritto qualche anno fa per la rivista della Associazione Italiana di Scienza e Tecnologia delle Macromolecole (AIM) e di aggiornarlo adattandolo ai mutamenti economici globali degli anni trascorsi e soprattutto di quelli finanziari della crisi globale. Sono state prese in considerazione anche le esigenze della Rivista “Esperia”. L’articolo è frutto di esperienze dirette fatte sul campo durante i miei numerosi viaggi di lavoro – quasi 40 – nelle più disparate province cinesi a partire dal 1985. Quale ex allievo della gloriosa nostra Scuola è stato per me un grande onore accettare. Spero che l’onere di scriverlo venga ripagato da un reale interesse dei lettori.

Chi ha avuto l’occasione di visitare la Cina non solo a livello di turista si sarà reso conto come negli ultimi otto lustri, dopo l’apertura al mondo occidentale, la Repubblica Popolare Cinese abbia dovuto adattare, in tempi troppo stretti, un mondo nato rurale e basato sull’agricoltura a quello elettronico e dei mass media che è stato importato in maniera massiccia e con una rapidità incredibile. Molte ditte occidentali – e nell’elettronica soprattutto l’industria giapponese è stata trainante – hanno creato in terra asiatica centri di produzione ad alto potenziale tecnologico sfruttando, per la parte del montaggio, i bassi costi della manodopera locale. Pare incredibile ma tra coloro che hanno sfruttato le possibilità di produrre in Cina c’è la ”odiata” Taiwan che, pare incredibile, in Cina è proprietaria di un grandissimo numero di aziende. Lo stesso ha fatto l’Italia con il mondo della moda, trasferendo nella terra dei mandarini una buona parte della produzione manifatturiera sulla quale il costo della manodopera incide in maniera determinante. Non è difficile in Cina comprare capi Prada, Moschino, Armani, a prezzi che non sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelli che noi paghiamo nei nostri negozi; come è facilissimo acquistare l’ultimo grido dell’elettronica a prezzi stracciati. DVD della Panasonic o della Pioner li potevate trovare, già una decina di anni fa, a un quinto del prezzo italiano e i film su DVD a 2000 lire l’uno contro gli oltre 3000 lire nei nostri negozi. Oggi non è più così poiché questi prodotti sono arrivati anche da noi a prezzi inimmaginabilmente bassi e quindi ai livelli dei mercati cinesi attuali. La Cina, per quelli che non l’hanno ancora visitata, è sempre qualcosa che ti immagini più strana dei posti usuali di espatrio, sia per l’incomprensibile lingua e l’ancor più inintelligibile scrittura, sia per quel fascino che ci trasciniamo dietro dal tempo del Milione con quei racconti incredibilmente veri, anche se forse un po’ coloriti da qualche romanzata storia di troppo. Eppure, nella Cina di oggi, almeno nelle metropoli, c’è meno “cinesità” di quella che si può trovare in una qualsivoglia China Town di qualche grande città americana o nel Bairro Libertade di San Paolo dove vive una comunità di quasi un milione tra cinesi e giapponesi. Grattacieli immensi in stili d’avanguardia, uffici bellissimi, negozi con gli ultimi ritrovati elettronici, telefonini in crescita esponenziale (si prevede possa diventare peggio dell’Italia, paese che a nostro parere sta molto male con quell’aggeggio infernale usato, ahimé, con grande maleducazione). Poi c’è molto made in Italy a livello di moda e ristoranti. Abbiamo mangiato meglio in ristoranti italiani di Pechino, Shanghai e Hong Kong che non in certe rinomate “trattorie” nostrane e tutto ciò nonostante la grossa difficoltà per reperire alcune materie prime. Ovviamente, fanno da contr’altare gli incredibili livelli di vita nelle campagne in cui si passa dal 2000 a modelli anche più disastrati di quello narrato da “L’albero degli zoccoli”: contraddizioni tipiche di tutto il Far East e pure di quasi tutti i paesi del terzo mondo.

Dal baco da seta alle bottiglie di PET

Lì si coltiva il baco da seta ancora come migliaia di anni or sono e la mentalità della gente non è cambiata troppo anche se la televisione ha fatto miracoli in questi ultimi anni. La televisione apre il mondo ai cinesi che così sono in grado di valutare le città occidentali e benché il mondo sia presentato a volte in idilliaco stile Holywoodiano, i confronti son sempre possibili e noi italiani che ci lamentiamo sempre, se fossimo al loro posto avremmo già fatto la rivoluzione…! Anche le differenze fra le diverse classi sociali, che una volta erano abbastanza livellate ora paiono divergere ogni giorno di più: con il benessere occidentale abbiamo, purtroppo, importato anche ricchezza a senso unico di cui beneficiano i rappresentanti delle compagnie straniere, i commercianti, gli uomini d’affari che si arricchiscono a spese di un popolino sempre più povero, sempre più conscio di una povertà che una volta era orgoglio di classe e oggi è solo disperazione. Di questa dicotomia anche le industrie chimiche e in particolare quelle relative alla produzione di polimeri e alla loro trasformazione non potevano non approfittare.

 Ecco così che molte società giapponesi, taiwanesi e di Hong Kong hanno trasportato la propria produzione in terra cinese. Molte occidentali hanno affittato impianti per produrre a minor costo potendo così espandersi commercialmente nel far-east. Molte altre hanno addirittura aperto fabbriche nella terra del mandarini. Ma vediamo dove è cominciata l’espansione. Da quando la Cina si è aperta al mondo – e c’era voluta una famosissima partita di ping-pong a dare il là a questa apertura – il popolo ha cominciato a liberarsi, per quanto possibile, dalla dittatura maoista e dai successivi dettami – ancor peggiori – della contro-rivoluzione. Ha iniziato a svincolarsi da certi lacci troppo forti che chiudevano in strette morse il semplice viver quotidiano, cominciando da quell’abbigliamento che aveva inorgoglito molti di quelle truppe di nostri sessantottini i quali avevano esibito quell’abito blu a mo’ di emblema: ma andava troppo stretto a chi lo portava non per propria scelta ma per imposizione altrui. Ecco allora che il cambiar abito, il cambiar colore, il cominciare a nascere a un nuovo mondo, ha inciso molto sull’abbigliamento e così la richiesta di tessuti diversi dalla seta, pregiata, costosa e destinata ai mercati stranieri, si è fatta più pressante e le tre fibre che potevano fare questo miracolo erano proprio nylon, poliestere e acrilico. Nell’autarchico periodo maoista, grazie all’alleanza con i russi, impianti di poliestere, poliammide e fibra acrilica erano stati messi in opera e lo stesso dicasi delle filature del polimero base. Ma si trattava di tecnologia povera, in grado forse di soddisfare il mercato interno, ma non certo capace di essere esportata competitivamente sui mercati esteri. Eppure questo era l’intendimento del governo cinese che aveva capito che il minor costo della manodopera era in grado di rendere assai competitivo il tessuto prodotto in Cina con questi materiali. Alla fine degli anni settanta si era cominciato a comprare tecnologia all’estero e le varie engineering che avevano fatto un timido ingresso negli anni precedenti si presentarono in massa sul mercato cinese offrendo il meglio di impianti di polimerizzazione in poliestere, acrilico e nylon, seguiti di pari passo dalle nuove tecnologie di filatura in tutti i campi del settore (POY, FDY, BCF, HTY, da solvente ad umido e a secco).

Il sapere in contrasto con la tecnologia

Se l’industria cinese era – e in parte lo è ancora – sofferente sotto il profilo tecnologico, le università si andavano, per contro, sviluppando a vista d’occhio per cui le richieste che il ministero tessile faceva all’industria occidentale che offriva le proprie tecnologie non erano richieste di facile evasione perché i tecnici dell’industria acquirente erano sempre affiancati da illustri ingegneri e professori dei vari politecnici cinesi, da molto tempo aperti all’esterno e sempre pronti a richiedere tecnologie d’avanguardia, soprattutto sotto il profilo del controllo di processo. A tale proposito ricordiamo le difficoltà di tecnici di imprese di alto livello (Zimmer, Inventa, Fischer, Montedison, Enichem, ecc.) di fronte a richieste di tecnologie di controllo di processo con sistemi ridondanti che in Italia solo poche industrie del settore utilizzavano. Questo era il dritto della medaglia! Il rovescio arrivava poi quando i tecnici cinesi venivano lasciati soli a gestire quegli impianti, con pochi soldi a disposizione (il pacchetto statale per comperare l’impianto era forte, mentre il denaro

per la manutenzione quotidiana assai carente) e costretti a eliminare, nel tempo, uno ad uno i sistemi di controllo più sofisticati, sia per difficoltà di reperimento dei pezzi di ricambio che del denaro necessario: l’impianto passava così da totalmente automatizzato – o magari da controlli con sistemi intelligenti – a controlli manuali tra i più beceri e antidiluviani la cui sola intelligenza utile era quella degli operatori capaci di gestirli in condizioni precarie. Tornando alle grandi industrie potremmo distinguere tra quelle totalmente costruite dalle imprese occidentali e da loro gestite direttamente (a parte la percentuale obbligatoria di partnership del governo cinese). In questo caso il buon funzionamento dipende dalla capacità di approvvigionare sul mercato interno le materie prime e di trovare i pezzi di ricambio affidabili. Quasi sempre è dall’estero che i pezzi più delicati devono sempre arrivare. Una buona logistica di fabbrica permette al sistema di operare sempre al meglio, su target occidentali e con costi più contenuti sia per il minor costo della manodopera che delle materie prime. In questo caso l’industria produce realmente prodotti di prima qualità, competitivi a tal punto da dare alla società un ampio margine di guadagno. Oggigiorno il gap tra occidente e Cina si sta riducendo alquanto anche se si passa da imprese altamente sofisticate dal punto di vista tecnologico ad altre che ci fanno tornare al periodo pre-bellico. In un’altra categoria di grandi industrie, costruite grazie a joint-venture con imprese giapponesi, taiwanesi oppure occidentali, si possono presentare situazioni differenti. Se il partner esterno pesa sulla conduzione dell’industria in modo rilevante allora l’allineamento alla situazione precedente è assicurato. In caso contrario l’industria lentamente – e nemmeno troppo lentamente – degrada sino ai livelli classici delle industrie totalmente cinesi. Queste ultime, se partono sfruttando tecnologia occidentale, partono solitamente molto bene ma poi decadono grandemente e la qualità e la competitività si abbassano di molto raggiungendo livelli che arrivano a malapena al target per l’esportazione. Gli impianti decadono rapidamente e la loro manutenzione diventa sempre più onerosa.

L’industria medio-piccola: povera ma in espansione

Se parliamo di industria medio-piccola allora la situazione può essere la più disparata. Quelle totalmente cinesi viaggiano a un livello di mediocrità impressionante e la tecnologia reperibile sul mercato interno non le aiuta molto. Se il partner esterno è maggioritario allora si può sperare che si mantengano a livelli qualitativi decenti. Generalmente questo accade dopo che il partner si rende conto che della tecnologia cinese non deve fidarsi. Certo là tutto costa meno caro, ma è anche assai meno duraturo.

Ricordiamo un semplice reattore in acciaio inox di una quindicina di metri cubi di capacità, agitatore ad ancora e valvolone a sfera per lo scarico. Il costo era un terzo di quello di uno stesso impianto costruito in Italia: dopo due giorni di lavoro per far girare la valvola a sfera occorreva prolungarne il manico con un tubo di un paio di metri per far leva sufficiente a consentirne l’apertura! Se parliamo poi delle persone che lavorano agli impianti di queste piccole industrie allora è quasi una comica. Abbiamo visto saldatori in giacca e cravatta arrampicati e accovacciati sui tubi a dieci metri di altezza – senza nessun aggancio – che saldavano a cannello tubi attraversanti il capannone. Alla faccia della sicurezza! Giacca e cravatta dicevamo ed è giusto aprire una parentesi. Costretti per anni a portare quella tuta che uniformava tutto il popolo; quando se ne sono potuti liberare hanno usato giacca e cravatta, modello occidentale, come status di liberazione da una schiavitù di scelta mal sopportata e così il potersi presentare in giacca e cravatta è una conquista sociale. Succede quindi che il padrone della società (occidentale) viene in fabbrica in jeans e camicetta e l’ultimo dei tecnici salda appeso a un tubo con giacca e cravatta. In queste ditte mancano le cose più elementari e si tenta di costruirle in loco alla belle meglio. Dobbiamo dire che sono anche bravi e che il bisogno aguzza l’ingegno: peccato che vogliano inventare quello che esiste già e che basta poco per andarlo a comperare nella città vicina. La mentalità è quella appunto dei tempi dell’albero degli zoccoli dove, allora era necessità, si doveva tagliare di nascosto un albero per fare un paio di scarpe decenti al proprio figlio. Le stesse persone che si arrabattano a costruire in proprio le cose più disparate le vedi poi in giro con walky-talky di ultima generazione, la TV a colori, il video registratore e magari il DVD, collocati in una catapecchia di pochi metri quadri. Ovviamente nelle grandi città la differenza tra i giovani occidentali e quelli cinesi si è ridotta quasi a zero e questo è dovuto a internet e alla televisione.

Tecnopolimeri in grande espansione

Eppure, nonostante tutti questi limiti, l’industria dei polimeri sta rapidamente incrementandosi, anche nel settore più qualificato dei tecnopolimeri. L’industria delle bottiglie in PET si sta sviluppando a macchia d’olio e anche nel settore dei compounds c’è molto fermento. Grazie all’aiuto di imprese straniere, la plastica sta invadendo le case dei cinesi che alle vetuste resine termoindurenti e ai metalli sta sostituendo, nel campo dell’utensileria casalinga, tecnopolimeri ad alto contenuto tecnologico. Lo stampaggio e l’estrusione avevano già un loro sviluppo sulle commodities polimeriche (polietilene, polipropilene) e tutta la parte di imballaggio derivata da questi materiali aveva già avuto una grande espansione in passato. Ora lo sforzo del governo cinese e dell’industria dei polimeri si sta spostando su materiali più qualificati. In questo caso, non essendo un’industria manifatturiera, il vantaggio del minor costo della mano d’opera è relativo come relativo è quello del minor costo delle materie prime, già basso anche nei paesi occidentali, per cui non dovremmo temere concorrenza dalla Cina ma piuttosto dai paesi arabi, soprattutto oggi che il costo del petrolio è alle stelle. Il vantaggio del dollaro relativamente basso in confronto alla moneta europea, dopo la crisi economica globale è stato assorbito dall’incremento del costo delle materie prime di cui c’è sempre più scarsità. Da parte dei cinesi dovremmo temere una concorrenza agguerrita nel campo dei manufatti polimerici in cui è necessaria ancora mano d’opera (reti da pesca, fili da pesca, tessuti pregiati). Qui il mercato occidentale potrebbe venire realmente intaccato e la perdita di manodopera potrebbe essere rilevante, come già lo è stato e continua

ad esserlo nel campo della moda pret-a- porter e del relativo indotto. Ricordiamo che negli ultimi vent’anni la Cina ha fatto veramente passi da gigante nonostante tutte le difficoltà che abbiamo cercato di evidenziare in questo articolo. Inoltre la ricerca di stato e le università cinesi sono veramente ad alto livello, anche per l’aiuto che viene loro dato dai professori emigrati negli Stati Uniti e poi tornati alla madre patria con un bagaglio di conoscenze enorme, che le università sono in grado di recepire e sfruttare. Allo studente cinese si danno molti mezzi didattici e le biblioteche delle principali università sono ben fornite. Anche se le apparecchiature più sofisticate sono ridotte come numero e sono appannaggio di poche università, c’è un interscambio che permette alla fine di effettuare lavori da pubblicare anche con tecnologie analitiche innovative. Inoltre lo studente cinese deve studiare la propria materia in maniera decisamente intensiva e dal punto di vista teorico sono alquanto preparati. La famosa e disprezzata nozionistica che da noi il sessantotto ha contribuito a spazzar via, magari protestando con in mano un libretto rosso di Mao, qui, dove Mao c’è stato davvero, è rimasta il fulcro che distingue lo studente cinese da quello occidentale: così va il mondo! Non una sola volta chi scrive si è trovato di fronte a studenti che su un dato argomento, proposto tra l’altro da noi, avevano raccolto innumerevoli informazioni bibliografiche ed erano in grado di proporre metodi di indagine che non sospettavamo possibili. Non parliamo poi della matematica, della fisica e dell’informatica dove veramente si trovano a loro agio e il più delle volte sono stato messo in gran difficoltà. Se non ci fosse la carenza di idonee tecnologie sviluppate in loco, ci avrebbero già stritolato. Non è detto che non lo possano fare in un futuro forse nemmeno troppo lontano! La Cina, infatti, si sta avvicinando sempre di più al target occidentale e la recente crisi finanziaria del mondo occidentale ha ridotto ancor più i tempi per un pareggio. Quando la Cinam entrerà definitivamente in quello che noi chiamiamo mondo globalizzato, a cui loro tendono e che invece è contestata a viva voce dai giovani impegnati in una battaglia a favore dei paesi più poveri, si avrà forse un completo cambiamento della visione economica, ma non siamo in grado di prevederne la direzione e l’entità. Una scoperta che speriamo non sia troppo deludente! Abbiamo già parecchi problemi da risolvere oggi noi qui in Europa con la concorrenza cinese che aggiungerne altri ci metterebbe veramente in ambasce.